«Dopo aver inciso come sideman circa ottanta CD, finalmente registro un lavoro a mio nome. Da solo. Un buon punto di partenza». Con queste parole Tito Mangialajo Rantzer apre il booklet del suo “Dal basso in alto” (Autoprodotto, 2014), l’album che per la prima volta vede sulla copertina il suo nome scritto in grande, dopo molto tempo passato a fare esperienze diverse, che hanno stratificato in lui la necessaria consapevolezza per porsi in primo piano. È un lavoro stupendo, dal quale emerge la forza espressiva del contrabbassista e il suo amore per alcune figure chiave, come quella di Ornette Coleman, del quale reinterpreta quattro brani, oppure di Dave Holland, al quale è dedicata DH, uno dei tanti passaggi in scaletta dai quali affiora la sua grana emozionale, fatta di corde che vibrano nell’aria, respiri e melodie che nascono in piena spontaneità.
Quanto è stato duro e difficile il percorso, di studi e poi come sideman, per arrivare alla pubblicazione dei dischi a tuo nome come “Dal basso in alto”, o i due capitoli di “When We Forgot the Melody” insieme a Grechi Espinoza? Non lo definirei difficile. Parliamo di musica, di jazz, cioè di una maniera di suonare che permette al musicista di esprimere sé stesso, e di comunicare con un pubblico disposto ad ascoltare la storia che vuole raccontare. Non credo ci debba essere difficoltà o durezza in tutto ciò. Queste due parole mi evocano qualche cosa di brutto, pesante, che implica frustrazione e competizione. Il jazz, per come lo vorrei vivere io, invece è gioia, felicità di stare sul palco con dei musicisti che stimo e ammiro e che il più delle volte sono anche con degli amici. Il jazz è nel cercare di far passare una bella ora al pubblico che ti ascolta in concerto, magari facendolo anche pensare, dandogli dei punti di vista diversi, alle volte un po’ indigesti al primo incontro, ma mai cercando di dimostrare qualcosa. Purtroppo mi capita spesso di ascoltare dei musicisti di jazz che sembrano voler far vedere che “ce l’hanno più lungo”. Uso questa metafora un po’ forte per far capire la sensazione che traspare anche nell’iconografia del jazzista contemporaneo: espressioni dure, quasi mai un sorriso, presa di posizione molto seriosa. Ragazzi, è musica, sorridete! Tornando alla domanda, più che difficoltà di percorso, direi che ci ho messo un po’ a capire che volevo realizzare qualcosa di mio. Inoltre, il sodalizio umano e musicale con Dimitri Grechi Espinoza è stato fondamentale nello sbloccare la situazione.
Cosa vuol dire, in termini di approccio musicale, considerarsi un jazzista negli anni Duemila? Forse che siamo cresciuti anche ascoltando molto rock e pop, qualche cosa che non possiamo ignorare, nel bene e nel male. Oggi possiamo accedere a un archivio musicale vastissimo, con un semplice click. E questo non sempre credo sia un aspetto solo positivo, perché si rischia la superficialità.
In questo momento vivere di sola musica è molto dura. Come stai affrontando la crisi? Cerco di impegnarmi a fondo in progetti interessanti, sperando che portino a qualche risultato, non solo economico, ma anche a livello di soddisfazione personale. Prendo tutto ciò che arriva, sempre, chiaramente, nel modo migliore. Anche quando suono a un matrimonio cerco di divertirmi e di creare uno scambio con gli altri musicisti. Queste occasioni le sfrutto anche per studiare suonando, e il tutto può essere divertente.
È vero che in Italia, nelle manifestazioni che contano, suonano sempre gli stessi musicisti? A me sembra di sì, ma dovrei approfondire bene la cosa per non rispondere senza dati certi. Basterebbe andare a vede i programmi dei festival importanti degli ultimi cinque o sei anni e fare delle statistiche. Solo così si può rispondere. Però, la mia sensazione, condivisa da molti colleghi e anche da amici appassionati ascoltatori, è che molti cartelloni si somiglino molto e che lo spazio di manovra per i direttori artistici sia basso, essendo, probabilmente, vincolati dagli sponsor, i quali vogliono concerti che riempiano le sala, e dalle agenzie che impongono i loro artisti. È più facile per tutti telefonare a un’agenzia e chiedere dei nomi conosciuti piuttosto che andare in giro ad ascoltare roba nuova. In questo modo il pubblico si abitua alla solita musica e diventa pigro, poco curioso. Si crea una specie di corto circuito. Ci vorrebbero più direttori artistici coraggiosi, tipo Willhelm Meister, il personaggio del romanzo di Goethe. Nella mia piccola esperienza gli organizzatori di Clusone Jazz sono sempre stati, tra i pochi, molto coraggiosi.
In che modo potrebbe cambiare questa situazione? Non saprei. Cerco di suonare al meglio e di comunicare col pubblico. Non faccio il direttore artistico di un festival. Mi piacerebbe vedere più critici e giornalisti di settore frequentare i jazz club per conoscere da vicino la realtà quotidiana del jazz. Un po’ come accadeva a New York ai tempi d’oro. Invece, non li vedo mai...
Quanta colpa hanno in merito i musicisti stessi? Credo nessuna. Chi viene chiamato a suonare è normale e giusto che ci vada, e chi sta a casa non ne può nulla.
L’interesse per jazz in Italia è concreto, o è solo una questione di moda e atteggiamenti di facciata? Gli appassionati veri sono pochi e generalmente sopra i quarant’anni anni di età. Ci sono pochi giovani. Molti ascoltano sporadicamente, magari solo in estate e i soliti nomi, altro non ascoltano. Così come tanta gente ha in casa solo “Siddharta” di Hesse, alcuni hanno solo un CD di Bollani o il “Köln Concert”, che già andrebbe bene. Alcuni hanno un album di Allevi e credono che sia jazz, o era musica classica? Dovrei vedere che cosa ne pensa Serena Dandini, o Fabio Fazio… Sì, forse un po’ di moda e di facciata ci sono.
Che idea hai dei critici musicali? Nella mia formazione di appassionato prima e di jazzista dopo, sono state fondamentali le letture di articoli, libri, note di copertina degli LP, scritti da Nat Hentoff, Leonard Feather, Ira Gitler, Barry Ulanov e altri grandi. Quando avevo vent’anni ho passato ore alla libreria Sormani di Milano a leggere vecchi numeri di DownBeat e di Musica Jazz. Ricordo ancora lo stupore che provai leggendo la recensione di Pollilo di un concerto di Coltrane e Dolphy a Milano nelle quale, semplicemente, li stroncava.
Consiglieresti a tuo figlio di intraprendere la carriera da musicista? In caso, su quali aspetti lo metteresti in guardia? Non credo che darò consigli ai miei figli su ciò che dovranno fare da grandi. Spero che sviluppino una passione di qualche tipo, e che possano coltivarla facendola diventare un lavoro, come è capitato a me. Non importa quale passione. Basta che ne abbiano una e che non si lascino vivere. Se faranno i musicisti, li metterò in guardia sul cercare di evitare di diventare degli edonisti musicali, di tenere a bada l’ego, e di pensare alla musica, il jazz soprattutto, come a un dialogo fra persone. Ci vuole rispetto e fratellanza col prossimo. Ecco, io sono per la fratellanza. E poi gli dirò di stare attenti quando si torna a casa la notte dopo aver suonato: in giro è pieno di pazzi che corrono in macchina...
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