martedì 28 ottobre 2014

Energia, rischio e convinzione: intervista a Marco Valente (Auand Records)

Marco Valente è un produttore che sceglie con molta accuratezza i progetti sui quali investire tempo, energie e la grande passione che lo contraddistingue. Lo fa per la sua Auand Records, etichetta nata nel 2001 e che è andata dunque incontro a tutte le difficoltà rappresentate dalla rivoluzione del download e della “musica liquida”. In questi anni sono stati molteplici i riconoscimenti e gli attestati di stima da parte del pubblico e degli addetti ai lavori riguardo all’attività svolta da Valente, il quale, forte di un’intraprendenza che trova pochi motivi di paragone, continua ad attraversare il mare in tempesta della crisi discografica.

Mettere in piedi un’etichetta discografica negli anni Duemila, in termini economici, non è stata certo una mossa vantaggiosa. Cosa ti ha spinto a intraprendere questa strada in salita?

Sin dall’inizio non ho pensato ad Auand come un vero e proprio business, pur cercando di avere un occhio attento ai conti. L’intento è sempre stato quello di documentare un certo tipo di suono, di ricerca musicale, soprattutto a opera delle nuove generazioni.

In cosa hanno sbagliato, negli anni, le major discografiche?

Non saprei di preciso, perché i meccanismi delle major sono così lontani, e per certi versi incomprensibili, per una label indipendente come la nostra. A guardare dal di fuori penso che abbiano semplicemente cercato di spremere un limone che fino a pochi anni fa gli aveva fruttato patrimoni oggi impensabili. Non avrebbero potuto – con strutture enormi alle spalle – fare diversamente.

Quando ti sei reso conto che la “musica liquida” avrebbe preso il sopravvento riducendo al minimo le possibilità del supporto fisico?

Qui da noi le tendenze arrivano sempre con qualche anno di ritardo. Il passaggio era già chiaro da tempo guardando quello che accadeva nel mercato americano.

Negli anni c’è stato un episodio, più di altri, che ti ha reso fiero di aver scelto questa avventura?

A essere sincero, producendo pochi dischi e scegliendoli con molta attenzione, ogni volta che pubblico un disco sono sempre fiero. Poi, ci sono momenti, anche non legati a un disco in particolare, in cui mi diverto di più, come è successo con l’organizzazione di Auand Meets NYC, il festival organizzato a New York a Novembre 2011 per festeggiare i dieci anni dell’etichetta. E come è successo nel 2012 con la nascita del gruppo allargato The AUANDers, da me fortemente voluto e documentato nel disco “Live in Pisa”.

Perché gli appassionati di jazz, a differenza di quelli che seguono maggiormente rock e pop, continuano a comprare i dischi in vinile o i compact disc?

Quando ero ragazzino, per un certo periodo, ho frequentato il mondo dell’alta fedeltà. Tutti quelli che frequentavano quei pochi negozi di riferimento erano attratti essenzialmente da musica classica e jazz, come se il pop non fosse degno dei loro impianti da milioni di lire. L’impressione che avevo allora era che il jazz non piacesse veramente, ma che avesse un sapore più trendy nei loro discorsi. Chi compra vinile oggi proviene, spesso, da quel giro. Il vinile e il cd sono prodotti che vanno ascoltati in determinate condizioni, seduti in una stanza adatta e attrezzata, cosa che le nuove generazioni non conoscono. Questo è anche uno dei motivi per cui il pubblico del jazz è mediamente alto, sia d’età, sia di estrazione sociale.

Oggi per un’artista non è difficile registrare e distribuire in proprio. Cosa li spinge a rivolgersi a un’etichetta discografica?

L’autoproduzione è diventata davvero molto semplice, ma poi ci sono scogli insuperabili quando ti metti alla ricerca di canali distributivi. Da solo arrivi difficilmente nei negozi, non arrivi di certo nelle catene e hai difficoltà persino sulle piattaforme digitali. Inoltre l’etichetta può darti una credibilità diversa con la stampa e con i promoter. Se ci pensi, le autoproduzioni che davvero funzionano sono quelle gestite da musicisti già molto noti.

Cosa deve avere un musicista per essere prodotto da Auand?

Lo dice il motto dell’etichetta: energia, rischio, convinzione e un pizzico di sorpresa. Deve incuriosirmi. Credo di aver dimostrato in questi undici anni di non avere pregiudizi. Ho prodotto quasi esclusivamente esordienti.

La tua etichetta in che modo si relaziona con il download e con internet?

L’ho rifiutato per anni. Poi ho dovuto ricredermi anche perché, sempre più spesso, ho preferito i demo via server anziché per posta. Era il segnale che la comodità dei bit fa la differenza. Per quanto riguarda internet, posso dire di essere stato un pioniere fondando nel 1997 un portale interamente dedicato al jazz Italiano, lavorando su modem a 14.4 e puntando poi sul commercio elettronico con il sito jazzos.com nato nel 1999. Oggi buona parte della comunicazione di Auand viene fatta sui social network.

Pensi mai agli sviluppi futuri della discografia? A che scenario andiamo incontro?

Cerco di non guardarmi molto indietro ma neanche riesco a guardare troppo avanti. Preferisco fare un passo alla volta, concentrandomi sulla promozione delle ultime uscite, sull'ascolto di nuovi artisti e sullo sviluppo di nuove idee.

info: http://www.auand.com/

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