giovedì 30 ottobre 2014

FABRIZIO BOSSO: il nuovo album “TANDEM” in uscita il 4 novembre per la Verve

Fabrizio Bosso pubblica il nuovo album, dal titolo “Tandem”, in coppia con il pianista Julian Oliver Mazzariello. In uscita il 4 novembre per la Verve, il disco vede la partecipazione straordinaria di Fiorella Mannoia e Fabio Concato.

Fabrizio Bosso e Julian Oliver Mazzariello presenteranno ufficialmente “Tandem” il 23 novembre al Blue Note di Milano, per poi tornare nuovamente in concerto a Orvieto in occasione di Umbria Jazz Winter, dal 28 al 31 dicembre.

In attesa dell’uscita del 4 novembre, è possibile prenotare già da ora il disco su iTunes, ottenendo in anteprima il brano Wide Green Eyes di Bosso. Inoltre, la versione digitale contiene anche la bonus track Estate.

more: http://www.fabriziobosso.eu/

mercoledì 29 ottobre 2014

In perenne ricerca di sé: Intervista a Paolo Benvegnù

«Non credo di essere una persona così gradevole, sono pesante, anche dal punto di vista fisico». Forse non ha un grande considerazione di sé Paolo Benvegnù, stando almeno a dichiarazioni come questa. Forse, ma è consapevole che agli occhi di una certa critica, e soprattutto di un pubblico che lo segue da molti anni, rappresenta una delle realtà più vive del cantautorato italiano. Il nuovo lavoro “Earth Hotel” (Woodworm Music / Audioglobe) ne conferma le grandi qualità espressive e la sua innata capacità di scavare nel profondo dei significati.

“Earth Hotel” è il tuo nuovo lavoro. Anche in questo caso, come accaduto in passato per altri album, l’attenzione è rivolta all’amore e ai sentimenti in genere.

Sì, “Earth Hotel” fa parte di un discorso espressivo partito molto tempo fa ed è una tappa del mio percorso. Siamo su questo pianeta e viviamo, disperatamente felici, situazioni nel presente. Di questo parla l’album, dell’esistenza di ognuno di noi. Ho cercato di descrivere la nostra esistenza, di come possiamo essere visti da un alieno e di come noi possiamo immaginare loro, cercando di essere il più leggero possibile, anche se non credo di esserci riuscito (ride, NdR).

Per la realizzazione del precedente “Hermann” avevi lavorato con il tuo gruppo, mentre questo sembra un lavoro di scrittura più personale.

Sì, decisamente. Ho vissuto momenti di solitudine. Avevo la sensazione di aver detto già tutto quello che avevo da dire. Pensavo di aver raggiunto il mio limite, mentre poi ho cercato di scavare nel profondo di me stesso, lentamente, senza sapere bene dove andare a cercare. Mi sono piacevolmente perso, e un po’ per volta ho iniziato a costruire il nuovo lavoro. Chiaramente, anche in questo caso, la missione non è del tutto compiuta. È stata una sorta di gravidanza isterica, che è comunque una gravidanza.

Mentre per la musica come hai costruito il lavoro da portare in studio di registrazione?

Mi sono arrangiato con quello che avevo a disposizione: una chitarra, un basso e dei synth. Una volta che avevo raccolto tutto il materiale ho fatto delle scelte, ma non avevo bene in mente cosa avrei voluto realizzare. L’album è nato in maniera molto spontanea. A volte pensiamo che le cose debbano essere mirabilmente costruite, in altre situazioni fanno parte di un caos infinito.

Quali caratteristiche deve avere un brano per convincerti che sia pubblicabile?

In realtà è la prima volte che, ottenuta una certa sintesi, ho messo insieme un’istantanea del mio presente, e ancora oggi non so se era quello che volevo ottenere, lasciando aperta la strada a eventuali cambiamenti. Però, questo modo di operare, senza preconcetti e strategie, mi è piaciuto, e probabilmente lo riproverò in futuro.

Attraverso la musica, come hai più volte dichiarato, fai luce nel tuo personale modo di essere. Pensi di essere arrivato a un punto dove riesci a capire di cosa hai realmente bisogno?

Direi che sono consapevole del fatto che le cose che mi servono veramente sono molto poche. Questo è certamente un raggiungimento di coscienza. Mi basta avere il cibo necessario, godo del fatto di poter respirare, e poco altro ancora. Questo mi rende felice, e debbo dire che sto passando un momento gioioso, di grande serenità, perché mi sono liberato di tante cose superflue per la mia sopravvivenza. Certe volte la gente, non si sa perché, sembra non riuscire a staccarsi da alcune cose e questo crea in loro una grande disperazione.

Come riesci a vivere in un mondo fatto essenzialmente di cose superflue, esasperazione e ritmi accelerati?

Mi difendo, è questa la chiave per andare avanti. È drammaticamente complicato, cerco di fare le scelte che mi sembrano più giuste, anche se servirebbe più di una vita per capire appieno la situazione. Il mio è un tentativo di vivere in un certo modo, e credo di aver trovato la strada, anche se il significato di certi aspetti del nostro modo di essere non li capiremo mai. Il tutto è meraviglioso, anche se, per certi risvolti, terribile al tempo stesso.

Pensi che per apprezzare arrivare alla felicità bisogna necessariamente attraversare momenti di estrema difficoltà?

Sì. A volte si piange per molto poco, e un torto subito al momento ci dà sensazioni strazianti, un po’ come quando da bambini non ci davano il leccalecca. Ho detto leccalecca? È una parola che non si sente più dire, sto diventando anziano (ride, NdR). È da quando che esiste la filosofia che ci portiamo dentro una certa insoddisfazione, e da questo stato nascono le domande sul reale significato della nostra esistenza. Ovviamente non ho risposte a riguardo, penso solo che sto andando verso una direzione che, tra una trentina d’anni, mi porterà a rispondere appieno a queste domande.

Tornando all’album, molti hanno apprezzato il fatto che “Earth Hotel” è uscito anche in vinile.

È una scelta dell’etichetta che mi è piaciuta molto. In generale sono molto entusiasta delle loro scelte e del loro modo di fare le cose. Il vinile riporta la musica alla giusta dimensione, è un’esperienza d’ascolto decisamente più adatta per apprezzare il contenuto musicale dell’album. Un vinile non puoi ascoltarlo in giro o mentre sei a fare footing. A me è sempre piaciuto, mettere un vinile sul piatto è un po’ come leggere un buon libro. La musica merita del tempo per essere ascoltata.

Oggi il mercato discografico è ridotto all’osso. Sei stato in passato promotore di artisti emergenti, te la senti ancora di invogliare un giovane a intraprendere la carriera musicale?

Suonare è per me una meravigliosa necessità. Non la vedo sotto l’aspetto dell’intrattenimento. È importate a livello di espressione personale, più che sotto il profilo economico. Di fatto, per suonare, spesso bisogna fare qualcos’altro per vivere. Una volta che si è consapevoli di questo, consiglio di mettersi a fare musica solo se si sente dentro una grande voglia di espressione. Bisogna rimanere coerenti con sé stessi se si vuole che questa passione diventi una cosa bella. Ho lasciato un lavoro sicuro per la musica, quindi me la sono sentita dentro di me. Senza questa spinta è inutile mettersi in opera. Sono scelte di vita, molto importanti, ancora di più oggi che non si guadagna praticamente niente.

Sei scaramantico?

No.

Al tuo funerale cosa vorresti che dicessero riguardo alla tua persona?

Niente, mi piacerebbe che, con un minimo di lucidità, me ne andassi da questa vita con profonda dignità. Vorrei sciogliermi nell’armonia celestiale dell’universo.

martedì 28 ottobre 2014

Energia, rischio e convinzione: intervista a Marco Valente (Auand Records)

Marco Valente è un produttore che sceglie con molta accuratezza i progetti sui quali investire tempo, energie e la grande passione che lo contraddistingue. Lo fa per la sua Auand Records, etichetta nata nel 2001 e che è andata dunque incontro a tutte le difficoltà rappresentate dalla rivoluzione del download e della “musica liquida”. In questi anni sono stati molteplici i riconoscimenti e gli attestati di stima da parte del pubblico e degli addetti ai lavori riguardo all’attività svolta da Valente, il quale, forte di un’intraprendenza che trova pochi motivi di paragone, continua ad attraversare il mare in tempesta della crisi discografica.

Mettere in piedi un’etichetta discografica negli anni Duemila, in termini economici, non è stata certo una mossa vantaggiosa. Cosa ti ha spinto a intraprendere questa strada in salita?

Sin dall’inizio non ho pensato ad Auand come un vero e proprio business, pur cercando di avere un occhio attento ai conti. L’intento è sempre stato quello di documentare un certo tipo di suono, di ricerca musicale, soprattutto a opera delle nuove generazioni.

In cosa hanno sbagliato, negli anni, le major discografiche?

Non saprei di preciso, perché i meccanismi delle major sono così lontani, e per certi versi incomprensibili, per una label indipendente come la nostra. A guardare dal di fuori penso che abbiano semplicemente cercato di spremere un limone che fino a pochi anni fa gli aveva fruttato patrimoni oggi impensabili. Non avrebbero potuto – con strutture enormi alle spalle – fare diversamente.

Quando ti sei reso conto che la “musica liquida” avrebbe preso il sopravvento riducendo al minimo le possibilità del supporto fisico?

Qui da noi le tendenze arrivano sempre con qualche anno di ritardo. Il passaggio era già chiaro da tempo guardando quello che accadeva nel mercato americano.

Negli anni c’è stato un episodio, più di altri, che ti ha reso fiero di aver scelto questa avventura?

A essere sincero, producendo pochi dischi e scegliendoli con molta attenzione, ogni volta che pubblico un disco sono sempre fiero. Poi, ci sono momenti, anche non legati a un disco in particolare, in cui mi diverto di più, come è successo con l’organizzazione di Auand Meets NYC, il festival organizzato a New York a Novembre 2011 per festeggiare i dieci anni dell’etichetta. E come è successo nel 2012 con la nascita del gruppo allargato The AUANDers, da me fortemente voluto e documentato nel disco “Live in Pisa”.

Perché gli appassionati di jazz, a differenza di quelli che seguono maggiormente rock e pop, continuano a comprare i dischi in vinile o i compact disc?

Quando ero ragazzino, per un certo periodo, ho frequentato il mondo dell’alta fedeltà. Tutti quelli che frequentavano quei pochi negozi di riferimento erano attratti essenzialmente da musica classica e jazz, come se il pop non fosse degno dei loro impianti da milioni di lire. L’impressione che avevo allora era che il jazz non piacesse veramente, ma che avesse un sapore più trendy nei loro discorsi. Chi compra vinile oggi proviene, spesso, da quel giro. Il vinile e il cd sono prodotti che vanno ascoltati in determinate condizioni, seduti in una stanza adatta e attrezzata, cosa che le nuove generazioni non conoscono. Questo è anche uno dei motivi per cui il pubblico del jazz è mediamente alto, sia d’età, sia di estrazione sociale.

Oggi per un’artista non è difficile registrare e distribuire in proprio. Cosa li spinge a rivolgersi a un’etichetta discografica?

L’autoproduzione è diventata davvero molto semplice, ma poi ci sono scogli insuperabili quando ti metti alla ricerca di canali distributivi. Da solo arrivi difficilmente nei negozi, non arrivi di certo nelle catene e hai difficoltà persino sulle piattaforme digitali. Inoltre l’etichetta può darti una credibilità diversa con la stampa e con i promoter. Se ci pensi, le autoproduzioni che davvero funzionano sono quelle gestite da musicisti già molto noti.

Cosa deve avere un musicista per essere prodotto da Auand?

Lo dice il motto dell’etichetta: energia, rischio, convinzione e un pizzico di sorpresa. Deve incuriosirmi. Credo di aver dimostrato in questi undici anni di non avere pregiudizi. Ho prodotto quasi esclusivamente esordienti.

La tua etichetta in che modo si relaziona con il download e con internet?

L’ho rifiutato per anni. Poi ho dovuto ricredermi anche perché, sempre più spesso, ho preferito i demo via server anziché per posta. Era il segnale che la comodità dei bit fa la differenza. Per quanto riguarda internet, posso dire di essere stato un pioniere fondando nel 1997 un portale interamente dedicato al jazz Italiano, lavorando su modem a 14.4 e puntando poi sul commercio elettronico con il sito jazzos.com nato nel 1999. Oggi buona parte della comunicazione di Auand viene fatta sui social network.

Pensi mai agli sviluppi futuri della discografia? A che scenario andiamo incontro?

Cerco di non guardarmi molto indietro ma neanche riesco a guardare troppo avanti. Preferisco fare un passo alla volta, concentrandomi sulla promozione delle ultime uscite, sull'ascolto di nuovi artisti e sullo sviluppo di nuove idee.

info: http://www.auand.com/

lunedì 27 ottobre 2014

John Coltrane: Jazz Messiah: “Offering” e il cinquantesimo anniversario di “A Love Supreme”

È il 17 luglio del 1967 quando John Coltrane lascia la vita terrena per raggiungere nell’Olimpo del jazz gli altri grandi di una storia che, grazie a un passaggio folgorante e inimitabile, segnerà per sempre. Ancora oggi, a ragion veduta, lo troviamo sulle copertine delle riviste di jazz più prestigiose al mondo, come nel caso del numero di settembre di Down Beat. I motivi sono principalmente due, uno di stretta attualità e l’altro celebrativo: la pubblicazione di “Offering: Live At Temple University” e il cinquantesimo anniversario, ormai prossimo, di “A Love Supreme” (Impulse! Records, 1965). La registrazione della Temple University, finora reperibile solo su alcuni bootleg, riguarda il concerto tenuto da Coltrane l’11 novembre del 1966 presso la Mitten Hall. Si tratta di un documento di straordinaria importanza, in quanto ne illumina un passaggio artistico, e di vita, particolarmente interessante, perché Trane stata vagliano nuove possibilità espressive, e in quella occasione invita sul palco diversi musicisti, tra i quali troviamo i percussionisti Umar Ali, Algie DeWitt e Robert Kenyatta. Inoltre, come sottolinea Ashley Kahn nelle note di copertina dell’album, a un certo punto della performance smette di suonare il sax e inizia sorprendentemente a cantare. A riguardo, Ravi Coltrane, che reperì diversi anni fa questa registrazione grazie a Michael Brecker, grande fan del padre, ricorda: «Quando sono arrivato a questo punto della registrazione e ho sentito la sua voce ho vissuto un’esperienza molto intensa». Quel giorno, sul palco, c’era anche il batterista Rashied Ali, che descrive così quel momento: «Si percuoteva il petto, in una sorta di canto sciamanico». L’album, pubblicato da Resonance Records, è disponibile, oltre che su CD, nell’edizione limitata in vinile da 180g in duemila copie.

Quasi due anni prima è dato alle stampe “A Love Supreme”. Coltrane entra in studio il 9 dicembre 1964, insieme a Jimmy Garrison, Elvin Jones e McCoy Tyner, per registrare il capolavoro che oggi è celebrato con diverse iniziative. Quella di maggiore rilievo è la serie di eventi organizzata da Ravi Coltrane al Miner Auditorium del San Francisco Jazz Center, dal 10 al 14 dicembre. Durante questi cinque giorni troviamo in programma concerti e conferenze, con protagonisti Steve Coleman & Five Elements, il Turtle Island Quartet, Joe Lovano e lo stesso Ravi, con diversi ospiti speciali, tra progetti originali e collaborazioni. Negli ultimi mesi sono state molte altre le iniziative rivolte a questo importante anniversario. Il fotografo Chuck Stewart ha donato allo Smithsonian National Museum of American History una serie di fotografie inedite, relative alle sedute di registrazione dell’album nello studio di Rudy Van Gelder a Englewood Cliffs, nel New Jersey, mentre Ravi Coltrane ha permesso al museo di mettere in mostra uno dei tre sax tenore appartenuti al padre. Si tratta di un Selmer Mark VI del 1964, riguardo al quale John Edward Hasse, curatore della sezione di musica americana del museo, ha dichiarato: «Ogni volta che mi trovo di fronte a questo strumento ho la pelle d’oca».

sabato 25 ottobre 2014

Carla Marciano Quartet: Russian Tour 2014

Il quartetto capitanato da Carla Marciano è atteso a novembre in Russia per tre date: 13.11 GG Jazz Festival III, International Jazz Festival Krasnodar / 14.11 MuzEnergo Music Festival, Dubna / 16.11 Esse Jazz Club, Mosca. Ad accompagnare la sassofonista in questa nuova avventura ci saranno Aldo Vigorito al contrabbasso, Gaetano Fasano alla batteria e Alessandro La Corte al pianoforte.

more: http://www.carlamarciano.it/

mercoledì 22 ottobre 2014

Alessandro Florio – Mattia Magatelli: “Taneda”

Alessandro Florio (ch); Mattia Magatelli (cb)

I giovani Alessandro Florio e Mattia Magatelli uniscono le loro intenzioni espressive in “Taneda”, l’album che li vede sia confrontarsi con alcune riletture, perlopiù prese in prestito dal repertorio di Thelonious Monk, sia esprimersi attraverso brani originali. Quello che si ascolta è un lavoro di rara intensità e raffinatezza, fatto di dialoghi svolti sul filo dell’equilibrio, limpide esposizioni tematiche, momenti di improvvisazione, fondamentale unità di intenti e forme costruite sempre con estrema chiarezza e flessibilità. Le corde percosse da Mattia Magatelli funzionano molto spesso da fondale per quelle di Alessandro Florio, chiamate a svolgere compiti di primo piano nei trentacinque minuti proposti, nei quali si rintraccia una grande empatia e un costante senso dell’abbellimento melodico.

Taneda / Just You, Just Me / Pannonica / In Walked Bud / Monk’s Dream / Laverne Walk / Ring Shout / No Title Blues

martedì 21 ottobre 2014

Paolo Fresu, Steven Bernstein, Gianluca Petrella e Marcus Rojas: nuovo album "Brass Bang!"

Uscirà l’11 novembre l’album "Brass Bang!", nuovo progetto di Paolo Fresu con Steven Bernstein, Gianluca Petrella e Marcus Rojas, per l’etichetta Tǔk Music (distr. Ducale Music). Un disco di soli ottoni. Non è una novità totale anche se la figurazione due trombe-trombone-tuba non trova riscontri storici, ma il tema, declinato come viene fatto in questo disco, è senza dubbio più unico che raro. Nato quasi per gioco, questo quartetto riesce a coniugare in maniera magistrale il difficile connubio che propone musica seria davvero intelligente e la parte ludica e divertente del mestiere del musicista.

lunedì 20 ottobre 2014

La forza analogica: intervista a Fabrizio Salvatore e Alessandro Guardia (Hi-Jazz Recording Studios)

Fabrizio Salvatore (A&R director) e Alessandro Guardia (sound engineer) hanno investito sulla qualità, sia tecnica sia organizzativa, per realizzare quel sogno che oggi si è fatto realtà con gli studi di registrazione Hi-Jazz, una struttura nata grazie anche alla grande esperienza che i due hanno accumulato in ambito discografico con l’etichetta AlfaMusic. Hanno dato vita a un luogo dove la musica, con particolare riferimento al jazz italiano, prende forma con cura, grazie alla professionalità di chi segue i musicisti, ma anche alla struttura degli ambienti pensati per riprodurre appieno la naturale essenza del suono.

La vostra struttura è nata da poco tempo, dopo la ventennale esperienza condotta con l’etichetta e centro di produzione AlfaMusic. Cosa vi ha spinto in tempi difficili, discograficamente parlando, a raddoppiare il vostro impegno anziché lasciare? Fabrizio Salvatore. Hi-Jazz nasce dal desiderio di crescere. È proprio la consapevolezza di vivere tempi difficili, oltre a quanto stia accadendo nell’ambito discografico, che ha motivato l’esigenza di raddoppiare l’impegno di AlfaMusic. Avevamo la volontà di migliorare le attività legate al nostro Centro di Produzione mettendo a disposizione l’esperienza tecnica e di produzione, ma soprattutto umana, maturata negli anni insieme ai musicisti presenti nelle pubblicazioni di AlfaMusic. È la vita che ci invita a continuare un percorso che pone la sua ragione di esistere nell’amore che nutriamo verso la musica e i suoi protagonisti, ai quali siamo felici di offrire la nostra esperienza nell’intento di maturare insieme. Tutto è nato dall’incontro con gli amici dei Forward Studios, con i quali stiamo condividendo questa nuova avventura, nell’ambizioso intento di offrire agli artisti e ai produttori degli alti standard qualitativi per soddisfare tutte le variegate esigenze di produzione. La filosofia del nostro team è orientata su valori fondamentali: qualità, professionalità, ma soprattutto cura dei rapporti umani.

Come avete iniziato l’avventura nell’ambito dell’audio recording? Alessandro Guardia: La scintilla scoppiò circa trent’anni fa, quando entrai per la prima volta in uno studio di registrazione con il mio primo gruppo per approcciare su nastro dei nostri provini. In quel momento fui rapito dal fascino di un registratore che girava e da una consolle analogica piena di pulsanti e led, ma soprattutto da un suono fantastico. Poi l’incontro con Fabrizio e una stimolante carriera che ancora oggi continua a darci molte soddisfazioni e non ci fa smettere mai di sognare. Fabrizio Salvatore: Mi presentarono Alessandro Guardia, che aveva già maturato delle esperienze in altre band in qualità di bassista e cantante. Ci divertimmo molto a suonare in una cover band e in seguito decidemmo di proseguire seriamente lo studio della musica iscrivendoci alla Scuola Popolare del Testaccio di Roma e poi alla Mississippi Jazz School. Da quei giorni il jazz è diventato parte insostituibile della nostra vita e molti dei docenti e studenti di quel periodo sono diventati cari amici e artisti con i quali abbiamo avuto l’onore di collaborare. La decisione di costruire il nostro primo studio di registrazione - all’epoca Alfa Recording - arrivò nel 1989, con non poche difficoltà, poiché entrambi frequentavamo anche l’università. Le nostre famiglie ci aiutarono; decidemmo di dedicarci definitivamente alla musica e di farne la nostra professione. A gennaio del 1990, dopo un anno passato a studiare la migliore soluzione acustica e tecnica con il supporto di una grande progettista come Livio Argentini, eravamo pronti. Avevamo tanta voglia di fare bene, un indimenticabile mixer Argentini, un registratore analogico a otto piste, un buon outboard (compressori, equalizzatori, reverberi) analogico, un pianoforte Yamaha C3, ma soprattutto degli ambienti con una buona acustica.

Avete intrapreso quest’attività avendo in mente un modello da seguire o la vostra filosofia di registrazione nasce da un’idea personale? Alessandro Guardia: La musica è musica, e anche se contraddistinta da generi diversi, ognuno di questi generi va riconosciuto con il dovuto rispetto. Naturalmente, agli inizi della nostra attività, abbiamo dedicato molto tempo per individuare e poi studiare le sonorità di case discografiche e produttori affermati nell’ambito jazz, ma non solo. Abbiamo in seguito maturato la nostra idea o filosofia di suono che è quindi confluita di conseguenza nelle produzioni di AlfaMusic. Ciò che ci ha sempre interessato è la ripetizione sul supporto di un suono naturale, nel rispetto delle sonorità e dinamiche originali prodotte dal musicista stesso. Se si lavora in ambienti acusticamente corretti e con macchine di buona qualità, il lavoro del tecnico del suono è agevolato e si comincia bene. Proprio per questo abbiamo prima di ogni cosa curato le caratteristiche acustiche degli ambienti nei quali facciamo le riprese sonore, fondamentali in qualsiasi genere di produzione. Le macchine, analogiche e digitali, i microfoni e soprattutto la maestria dei musicisti, fanno il resto.

Per quale motivo il vostro studio è specializzato nelle registrazioni di musica jazz? Fabrizio Salvatore: È stata una scelta spontanea; se ami un tipo di musica cerchi di proiettare l’interesse anche nel tuo ambito lavorativo; quando ciò accade credo si possa dire di essere fortunati. Inoltre, la frequentazione delle Scuole Popolari di Jazz di Roma prima di scendere in campo con AlfaMusic è stata sicuramente determinante; c’era un’atmosfera particolare in quegli anni, condivisa insieme a molti artisti come Enrico Pieranunzi, Gerardo Iacoucci, Andrea Alberti, Cinzia Gizzi, e avere un proprio studio per fare jazz era un sogno e ci impegnammo affinchè si realizzasse. Professionalmente eravamo interessati anche al confronto con generi musicali diversi, spesso lontanissimi dal jazz.

Quali sono le differenze sostanziali con gli studi che trattano artisti rock-pop? Alessandro Guardia: Fondamentalmente nel set-up tecnico di uno studio di registrazione professionale compaiono macchine anologiche e digitali versatili all'utilizzo di ogni genere musicale. Volendo entrare nello specifico possiamo dire che l'utilizzo di equalizzatori e compressori valvolari, essendo più morbidi sul processamento del segnale, è più adatto a generi musicali prevalentemente acustici come il jazz o la classica, mentre il rock e il pop reagiscono meglio con macchine, sempre analogiche, ma allo stato solido con transienti d’intervento più veloci e decisivi. Tuttavia oggi anche l'utilizzo di alcuni software e plug-in di qualità può aiutare nella lavorazione. Fabrizio Salvatore: Ho sempre riscontrato più facilità di comunicazione con i musicisti jazz; credo che l’intesa sia più rapida e basata su argomentazioni più sobrie rispetto a quanto succede nel mondo del rock o del pop.

C’è un album, nella storia del jazz, che più di altri ti ha colpito per la qualità di registrazione? Alessandro Guardia: “The Nightfly” di Donald Fagen. Anche se non precisamente un album di jazz, è stato nel 1982 tra i primi esperimenti in ambito digitale. L'attenta cura di lavorazione ha portato questo prodotto a essere stimato oltre che dai musicisti anche da molti addetti ai lavori per l'estrema pulizia del suono e il posizionamento stereo di tutte le parti degli arrangiamenti. Sicuramente un album da tenere ancora oggi a portata di mano per eventuali riscontri sulle proprie produzioni. Fabrizio Salvatore: “Now You See It (Now You Don't)” di Michael Brecker. Il ricordo delle note di quest’album è legato proprio agli inizi di AlfaMusic. Tra i brani di questo bellissimo lavoro ricordo quello conclusivo: “The Meaning Of The Blues”, molto emozionante; un suono unico, espressione di un grande artista.

Le registrazioni che escono dai vostri studi hanno una caratteristica comune? Alessandro Guardia: Le nostre sale di registrazione sono state progettate per ospitare più musicisti anche in ambienti diversi. Questo si traduce in un’idea di suono d’insieme, naturale proprio come in un live. Fabrizio Salvatore: Ciò che ci ha sempre interessato è la produzione su supporto (Cd, Vinile, nastro) di un suono “naturale”, nel rispetto delle sonorità prodotte dal musicista stesso. Oggi, riascoltando le produzioni di AlfaMusic è piacevole notare che nel nostro piccolo abbiamo costruito un suono che ci rende riconoscibili, naturalmente grazie alla sensibilità musicale degli artisti che abbiamo pubblicato. Mi vengono in mente le session di registrazione con Enrico Intra, Roberto Gatto e Giovanni Tommaso, Liebman/Intra, Stefania Tallini, Gabriele Mirabassi, Nicola Arigliano e le recentissime collaborazioni con Dino e Franco Piana insieme a Enrico Pieranunzi, Fabrizio Bosso, Max Ionata, Luca Mannutza, Giuseppe Bassi ed Enrico Rava.

Qual è il valore aggiunto nel registrare in uno studio come il vostro in tempi in cui si può incidere un CD anche a casa? Fabrizio Salvatore: Una dotazione tecnica di ottima qualità, la progettazione acustica degli ambienti, la disponibilità di un team di professionisti che svolgono ruoli diversi e complementari. Senza queste caratteristiche credo sia difficile raggiungere risultati importanti.

La vostra attività in che modo ha risentito delle registrazioni fatte in proprio dai musicisti? Alessandro Guardia: La professionalità e l'attenzione di chi fa questo lavoro va difesa e rappresentata, ma soprattutto in questo periodo di grande confusione, è necessario rivalutare una corretta distinzione dei ruoli. Artisti e musicisti che s’improvvisano tecnici, produttori, grafici e anche imprenditori della musica creano un danno alla propria immagine e di conseguenza anche a chi invece dall'altra parte ha sempre cercato di salvaguardarla.

Cosa pensate della divulgazione della “musica liquida”? Fabrizio Salvatore: La diffusione della “musica liquida” è oggi un ottimo mezzo sia di promozione che di commercializzazione dei prodotti, purché il processo tecnico produttivo sia condotto a regola d’arte. Attualmente esistono degli shop in rete che diffondono esclusivamente “musica liquida” in alta definizione e ciò rappresenta per noi di Hi-Jazz un continuo motivo di confronto e di sperimentazione. Riteniamo che questo sistema aggiunga dei vantaggi all'imprenditoria musicale amplificandone anche gli aspetti legati alla qualità sonora (di gran lunga superiore al diffuso formato MP3) e superando il concetto di supporto in quanto CD.

Come state vivendo questa fase in cui l’audiofilia e l’attenzione per la qualità sonora sono ai minimi storici? Alessandro Guardia: Il nostro obiettivo è proprio quello di rilanciare l'attenzione all'ascolto offrendo attraverso le nostre strutture tecniche, prodotti di alta qualità. Molto lavoro impegnato nella realizzazione di un album può finire anche in un MP3, ma bisogna capire da quale fonte ci si arriva e quale è stato il procedimento di codifica dello stesso. Fabrizio Salvatore: Credo che chi ama la musica jazz, e più in generale le musiche caratterizzate in prevalenza da un suono naturale, non possa fare a meno di porre attenzione nella qualità sonora dei prodotti musicali. Siamo per un suono non compresso, che rispetti le dinamiche originali dei musicisti e che emozioni. Se si lavora su questa strada anche l’aspetto educativo della musica verso i più giovani viene salvaguardato.

In fase di registrazione utilizzate macchine analogiche? In tal senso, siamo ancora in un momento di passaggio verso il completo utilizzo del digitale o c’è un’inversione di tendenza? Alessandro Guardia: Le macchine analogiche sono il punto di partenza e un punto di forza fondamentale di Hi-Jazz. Senza l’ausilio di una consolle analogica come la nostra AMS Neve 88 R e di tutto l'outboard, sempre analogico, di processori di segnale e reverberi o camere d’eco di altissima qualità, difficilmente si può arrivare a produzioni che realmente fanno la differenza. Per comodità d'uso il digitale aiuta a ottimizzare la fase dell’editing, oltre che a ridurre un po’ i tempi di produzione. Meglio sarebbe ancora utilizzare nastri analogici, che in Hi-Jazz sono diventati una consuetudine. Relativamente all’inversione di tendenza ribadisco che nelle nostre produzioni stiamo seguendo sempre più l’utilizzo dell’analogico nell’ottica di raggiungere risultati sempre migliori. Tra l’altro abbiamo verificato che i costi dell’analogico si sono ridotti nettamente rispetto al passato.

Quando siete in studio in che modo interagite con i musicisti a livello di produzione artistica? Fabrizio Salvatore: Alla base di tutto c’è sempre il grande rispetto per ciò che i musicisti ci propongono. Il nostro apporto tende a sviluppare, e possibilmente a migliorare, quanto il musicista ha concepito artisticamente prima di entrare in studio piuttosto che ad assumere un atteggiamento di “produzione artistica totale” come avviene nella musica pop e rock. Gli argomenti sui quali amiamo interagire con i musicisti riguardano prevalentemente gli aspetti legati al suono, alla comunicazione, anche a livello grafico grazie a un fantastico direttore creativo quale Ettore Festa, e naturalmente a tutta l’attività editoriale, promozionale e distributiva che curiamo in maniera molto dettagliata. Alessandro Guardia: Tecnicamente, le caratteristiche generali della produzione vengono studiate ed organizzate prima della realizzazione del prodotto. Se un progetto che ci viene presentato non è in armonia con la nostra linea editoriale preferiamo non valutarlo piuttosto che entrare nei meriti di una direzione artistica.

Seguite gli artisti anche in contesti live o vi occupate esclusivamente d’incisione in studio? Fabrizio Salvatore: Le attività di AlfaMusic e di Hi-Jazz ruotano principalmente negli ambiti della discografia e dell’editoria e naturalmente nell’articolata gestione del nostro centro di produzione. Negli ultimi anni abbiamo sviluppato anche un netto interesse verso i contesti live e il management. Ciò completa positivamente il grande impegno dedicato all’attività discografica determinando risultati più efficaci e produttivi per gli artisti che rappresentiamo e per l’azienda stessa. Proprio per questo motivo abbiamo incrementato la nostra presenza nei meeting jazz internazionali; in particolar modo partecipando alle ultime cinque edizioni del Jazzahead di Brema (www.jazzahead.de), dove ci proponiamo con uno stand dedicato al “jazz italiano”, che oltre a noi ospita operatori nazionali molto importanti. Seguiamo inoltre con molto interesse le attività organizzative di concerti e festival jazz.

Nel prossimo futuro l’attività di registrazione verso quale strada si dovrà muovere, dal punto di vista organizzativo, per continuare ad avere una sua credibilità pratica e una sua valenza a livello artistico? Fabrizio Salvatore: Penso che sia fondamentale continuare a proporre un’offerta basata sull’affermazione della qualità. Qualità tecnica offerta dagli studi di registrazione ai musicisti affinchè possano esprimere nel migliore dei modi il loro talento. Qualità artistica: quella che musicisti e produttori devono saper proporre al pubblico, nel rispetto reciproco e soprattutto per la musica che condividono. La convergenza di questi fattori, unitamente a una giusta formulazione dell’offerta economica e al necessario supporto delle istituzioni governative, saranno gli elementi fondamentali per il mantenimento della credibilità e della valenza a livello artistico del jazz italiano e della buona musica in genere.

Hi-Jazz (http://www.hi-jazz.com/)

Gli studi di registrazione Hi-Jazz sono dislocati tra Grottaferrata (nella tranquillità del Parco dei Castelli Romani) e Roma. La struttura offre ai propri clienti la possibilità di soggiorno con convenzioni con i tour operator della zona, oltre alla grande varietà di strumentazione e ambienti dedicati messi a disposizione dei musicisti. Tre sale di ripresa e missaggio, più una dedicata al mastering, nelle quali gli artisti si possono avvalere di una importante dotazione strumentale, che comprende, tra l’altro, anche un organo Hammond C3, pianoforti a coda Yamaha e Steinway, batterie acustiche, piano Fender Rhodes, Wurlitzer e Hohner Clavinet D6. […….]

venerdì 17 ottobre 2014

Boris Savoldelli e Garrison Fewell: “Electric Bat Conspiracy” (Creative Nation Music, 2014)

Boris Savoldelli (voc. Electronics); Garrison Fewell (ch el, ch ac, perc, ch slide, ch prep, voc) / Luca Donini (cl b in #2)

Si apre con un’intensa versione di Perfect Day, che suona come un ultimo saluto alla figura di Lou Reed, la scaletta di “Electric Bat Conspiracy”, l’album che vede l’incontro artistico tra Boris Savoldelli e Garrison Fewell. In programma troviamo dieci passaggi, nei quali il duo, affiancato da Luca Dinini al clarinetto basso nella sola Silence Is Music, mostra una grande versalità stilistica che, allontanandosi dal semplice binomio voce-chitarra, e con l’aggiunta di elettronica e percussioni, indaga diversi territori. Alla citata Silence Is Music, una sorta di manifesto psichedelico con Fewell intento nella narrazione delle poesie di Sun Ra (“Cosmic Equation” e “Outer Darkness”), si affianca l’introspettiva Whisper Sister, caratterizzata da echi e riverberi sinistri. La title track mostra la facciata più sperimentale dell’intero lavoro, con un insieme di voci, suoni processati e accostamenti espressivi arditi e prossimi a una concezione di libertà creativa pressoché totale. Nell’insieme il lavoro si rivela spiazziante e fuori da ogni incasellamento di genere.

Perfect Day / Silence Is Music / Circle Round / Softly, As In A Morning Sunrise / Electric Bat Cospiracy / No Evil In Prison / Whisper Sister / My One And Oly Love / A Not So Foolish Heart / You Don’t Know What Love Is

giovedì 16 ottobre 2014

TEHO TEARDO: Il nuovo album "BALLYTURK" è in uscita martedì 21 ottobre in tutta Europa

Esce in tutta Europa il 21 ottobre (su etichetta Spècula Records) il nuovo album di Teho Teardo intitolato "Ballyturk". Frutto della collaborazione con il drammaturgo Enda Walsh, il lavoro si avvale della partecipazione straordinaria di Cillian Murphy, presente anche nella cover assieme a Mikel Murfi.

Inizialmente concepite per l’omonima opera teatrale di Enda Walsh, presentata in anteprima mondiale a luglio al Festival di Galway e a settembre al National Theatre di Londra, le musiche di "Ballyturk" sono state poi rielaborate e incise da Teardo in questo nuovo album, in cui compaiono anche Joe Lally (Fugazi) e Lori Goldston, violoncellista dei Nirvana.

more: www.tehoteardo.com

mercoledì 15 ottobre 2014

Forefront: “Chaos Magnum” (Auand, 2014)

Jack D’Amico (pf, pf preparato, Fender Rhodes); Antonio Raia (ten, alto); Umberto Lepore (b el, cb); Marco Castaldo (batt). Ospite: Giacomo Ancillotto (noise, ch on #10)

La scaletta di “Chaos Magnum” si compone di dieci tracce, attraverso le quali il quartetto Forefront dà forma alla propria visione musicale, fatta di improvvisazione, movimenti free, linee avanguardistiche e larghi spazi di manovra formale. La loro è un’idea di suono basata sull’istinto e sulla creazione senza vincoli, che omaggia l’insegnamento e la figura di alcuni grandi compositori (uno per ogni traccia), come Luciano Berio, Arnold Schönberg e György Ligeti. Nell’insieme si incontrano, si scontrano o si alternano, passaggi di coas totale a tracciati riconoscibili, situazioni disorientanti a scambi di pura semplicità melodica, all’occorrenza prossimi al silenzio. In primo piano, molto spesso, troviamo il sax di Antonio Raia, capace in alcune tracce di tradurre un lessico di consistente ferocità, sempre coerente con un contesto multiforme. Nella conclusiva Unusual Indications, a creare ulteriori tangenti espressive, interviene Giacomo Ancillotto.

Alea / Triangular / La Fèe Verte (la fata verde) / Metamorphin / Stream Of Consciousness / Träumen Der Hölle / Dodeca / Tanmatras / Tenebrace / Unusual Indications

martedì 14 ottobre 2014

Lars Danielsson: “Liberetto II” (ACT Records, 2014)

Lars Danielsson (cb, vln, pf, pf melody); Tigran (pf, Fender Rhodes); John Parricelli (ch); Magnus Öström (batt, perc, electronics). Ospiti: Mathias Eick (tr); Dominic Miller (ch); Cæcilie Norby (voc); Zohar Fresco (perc, voc).

Al centro del discorso espressivo di “Liberetto II”, secondo capitolo del lavoro uscito nel 2012, c’è la forza delle melodie che segnano le dodici tracce in scaletta, tutte originali scritte da Lars Danielsson tranne Swedish Song, firmata da Tigran, e View From The Apple Tree, composta da entrambi. I temi proposti sono cantabili, come quello di The Truth, uno dei tanti brani segnati dagli slanci del trombettista Mathias Eick, il quale dialoga spesso con le corde percosse da Danielsson, che a sua volta, anche al violoncello, riesce a ritagliarsi diversi momenti di primo piano, sempre versati alla funzionalità d’insieme. Il leader si produce anche in un passaggio al pianoforte nell’iniziale Grace, e mette a reagire nelle intelaiauture dei brani una azzeccata varietà timbrica, che vede protagonista soprattutto Tigran, splendido esecutore, dalla classe cristallina, di linee pianistiche fantasiose e fluttuanti. In copertina, un’opera senza titolo di Martin Noël.

Grace / Passacaglia / Miniature / Africa / I Tima / II Blå / III Violet / Swedish Song / Eilat / View From The Apple Tree / The Truth / Beautiful Darkness

lunedì 13 ottobre 2014

Tito Mangialajo Rantzer: il respiro del basso

«Dopo aver inciso come sideman circa ottanta CD, finalmente registro un lavoro a mio nome. Da solo. Un buon punto di partenza». Con queste parole Tito Mangialajo Rantzer apre il booklet del suo “Dal basso in alto” (Autoprodotto, 2014), l’album che per la prima volta vede sulla copertina il suo nome scritto in grande, dopo molto tempo passato a fare esperienze diverse, che hanno stratificato in lui la necessaria consapevolezza per porsi in primo piano. È un lavoro stupendo, dal quale emerge la forza espressiva del contrabbassista e il suo amore per alcune figure chiave, come quella di Ornette Coleman, del quale reinterpreta quattro brani, oppure di Dave Holland, al quale è dedicata DH, uno dei tanti passaggi in scaletta dai quali affiora la sua grana emozionale, fatta di corde che vibrano nell’aria, respiri e melodie che nascono in piena spontaneità.

Quanto è stato duro e difficile il percorso, di studi e poi come sideman, per arrivare alla pubblicazione dei dischi a tuo nome come “Dal basso in alto”, o i due capitoli di “When We Forgot the Melody” insieme a Grechi Espinoza? Non lo definirei difficile. Parliamo di musica, di jazz, cioè di una maniera di suonare che permette al musicista di esprimere sé stesso, e di comunicare con un pubblico disposto ad ascoltare la storia che vuole raccontare. Non credo ci debba essere difficoltà o durezza in tutto ciò. Queste due parole mi evocano qualche cosa di brutto, pesante, che implica frustrazione e competizione. Il jazz, per come lo vorrei vivere io, invece è gioia, felicità di stare sul palco con dei musicisti che stimo e ammiro e che il più delle volte sono anche con degli amici. Il jazz è nel cercare di far passare una bella ora al pubblico che ti ascolta in concerto, magari facendolo anche pensare, dandogli dei punti di vista diversi, alle volte un po’ indigesti al primo incontro, ma mai cercando di dimostrare qualcosa. Purtroppo mi capita spesso di ascoltare dei musicisti di jazz che sembrano voler far vedere che “ce l’hanno più lungo”. Uso questa metafora un po’ forte per far capire la sensazione che traspare anche nell’iconografia del jazzista contemporaneo: espressioni dure, quasi mai un sorriso, presa di posizione molto seriosa. Ragazzi, è musica, sorridete! Tornando alla domanda, più che difficoltà di percorso, direi che ci ho messo un po’ a capire che volevo realizzare qualcosa di mio. Inoltre, il sodalizio umano e musicale con Dimitri Grechi Espinoza è stato fondamentale nello sbloccare la situazione.

Cosa vuol dire, in termini di approccio musicale, considerarsi un jazzista negli anni Duemila? Forse che siamo cresciuti anche ascoltando molto rock e pop, qualche cosa che non possiamo ignorare, nel bene e nel male. Oggi possiamo accedere a un archivio musicale vastissimo, con un semplice click. E questo non sempre credo sia un aspetto solo positivo, perché si rischia la superficialità.

In questo momento vivere di sola musica è molto dura. Come stai affrontando la crisi? Cerco di impegnarmi a fondo in progetti interessanti, sperando che portino a qualche risultato, non solo economico, ma anche a livello di soddisfazione personale. Prendo tutto ciò che arriva, sempre, chiaramente, nel modo migliore. Anche quando suono a un matrimonio cerco di divertirmi e di creare uno scambio con gli altri musicisti. Queste occasioni le sfrutto anche per studiare suonando, e il tutto può essere divertente.

È vero che in Italia, nelle manifestazioni che contano, suonano sempre gli stessi musicisti? A me sembra di sì, ma dovrei approfondire bene la cosa per non rispondere senza dati certi. Basterebbe andare a vede i programmi dei festival importanti degli ultimi cinque o sei anni e fare delle statistiche. Solo così si può rispondere. Però, la mia sensazione, condivisa da molti colleghi e anche da amici appassionati ascoltatori, è che molti cartelloni si somiglino molto e che lo spazio di manovra per i direttori artistici sia basso, essendo, probabilmente, vincolati dagli sponsor, i quali vogliono concerti che riempiano le sala, e dalle agenzie che impongono i loro artisti. È più facile per tutti telefonare a un’agenzia e chiedere dei nomi conosciuti piuttosto che andare in giro ad ascoltare roba nuova. In questo modo il pubblico si abitua alla solita musica e diventa pigro, poco curioso. Si crea una specie di corto circuito. Ci vorrebbero più direttori artistici coraggiosi, tipo Willhelm Meister, il personaggio del romanzo di Goethe. Nella mia piccola esperienza gli organizzatori di Clusone Jazz sono sempre stati, tra i pochi, molto coraggiosi.

In che modo potrebbe cambiare questa situazione? Non saprei. Cerco di suonare al meglio e di comunicare col pubblico. Non faccio il direttore artistico di un festival. Mi piacerebbe vedere più critici e giornalisti di settore frequentare i jazz club per conoscere da vicino la realtà quotidiana del jazz. Un po’ come accadeva a New York ai tempi d’oro. Invece, non li vedo mai...

Quanta colpa hanno in merito i musicisti stessi? Credo nessuna. Chi viene chiamato a suonare è normale e giusto che ci vada, e chi sta a casa non ne può nulla.

L’interesse per jazz in Italia è concreto, o è solo una questione di moda e atteggiamenti di facciata? Gli appassionati veri sono pochi e generalmente sopra i quarant’anni anni di età. Ci sono pochi giovani. Molti ascoltano sporadicamente, magari solo in estate e i soliti nomi, altro non ascoltano. Così come tanta gente ha in casa solo “Siddharta” di Hesse, alcuni hanno solo un CD di Bollani o il “Köln Concert”, che già andrebbe bene. Alcuni hanno un album di Allevi e credono che sia jazz, o era musica classica? Dovrei vedere che cosa ne pensa Serena Dandini, o Fabio Fazio… Sì, forse un po’ di moda e di facciata ci sono.

Che idea hai dei critici musicali? Nella mia formazione di appassionato prima e di jazzista dopo, sono state fondamentali le letture di articoli, libri, note di copertina degli LP, scritti da Nat Hentoff, Leonard Feather, Ira Gitler, Barry Ulanov e altri grandi. Quando avevo vent’anni ho passato ore alla libreria Sormani di Milano a leggere vecchi numeri di DownBeat e di Musica Jazz. Ricordo ancora lo stupore che provai leggendo la recensione di Pollilo di un concerto di Coltrane e Dolphy a Milano nelle quale, semplicemente, li stroncava.

Consiglieresti a tuo figlio di intraprendere la carriera da musicista? In caso, su quali aspetti lo metteresti in guardia? Non credo che darò consigli ai miei figli su ciò che dovranno fare da grandi. Spero che sviluppino una passione di qualche tipo, e che possano coltivarla facendola diventare un lavoro, come è capitato a me. Non importa quale passione. Basta che ne abbiano una e che non si lascino vivere. Se faranno i musicisti, li metterò in guardia sul cercare di evitare di diventare degli edonisti musicali, di tenere a bada l’ego, e di pensare alla musica, il jazz soprattutto, come a un dialogo fra persone. Ci vuole rispetto e fratellanza col prossimo. Ecco, io sono per la fratellanza. E poi gli dirò di stare attenti quando si torna a casa la notte dopo aver suonato: in giro è pieno di pazzi che corrono in macchina...

giovedì 9 ottobre 2014

Paolo Recchia: “ Three For Getz” (Albóre Records, 2014)

Paolo Recchia (alto); Enrico Bracco (ch); Nicola Borrelli (cb)

Esce per la sempre attenta Albóre Records “Three For Getz”, l’album con il quale Paolo Recchia rende omaggio alla figura di Stan Getz e misura la propria maturità con un repertorio importante e, al tempo stesso, pieno d’insidie. Il pericolo maggiore, nel mettersi vicino a una figura mastodontica come quella di Getz, era proprio quello di cercare una rivisitazione del repertorio troppo fedele agli originali, mentre il trio, completato da Enrico Bracco alla chitarra e Nicola Borrelli al contrabbasso, riesce a esprimere la propria visione musicale e si contraddistingue per una precisa sensibilità espressiva. Il leader è spesso chiamato a coprire i ruoli di primo piano, anche se non mancano gli scambi e le alternanze con le corde di Enrico Bracco, splendido interprete di sottofondo e solido solista. La scaletta propone temi cantabili e si snoda attraverso situazioni slow, come nella versione di First Song, e altre più movimentate, nelle quali emerge swing, empatia ed eleganza formale. Le note di copertina sono firmate da Dino Piana.

Indian Summer / Carpetbagger’s Theme / Grandfather’s Waltz / Three Little Words / First Song / Hershey Bar / O grande amor / Voyage / The Peacock’s

More: albore jazz

martedì 7 ottobre 2014

Giovanni Tommaso Consonanti Quartet: “Conversation With My Soul” (Parco della Musica Records, 2014)

Giovanni Tommaso (cb); Mattia Cigalini (alto); Enrico Zanisi (pf); Nicola Angelucci (batt)

Riprese dal vivo all’Auditorium Parco della Musica di Roma nel maggio 2014, le nove tracce di “Conversation With My Soul” portano tutte la firma di Giovanni Tommaso. La sua è una scrittura tesa a far luce dentro la propria sfera espressiva, e che riesce a dare forma ad ambientazioni diverse tra loro, capaci di restituire all’ascolto una buona alternanza di umori. Orizzonte è un brano che rimanda a un’atmosfera malinconica e pensosa, l’iniziale Teatro Studio percorre sentieri più articolati e introspettivi, Scioglilingua mostra una tensione esecutiva vibrante, mentre Happy Ending Musical mette in risalto il lato più brioso e spensierato di questo quartetto. Per completare la line up Tommaso ha scelto tre musicisti tra i migliori della nuova generazione, che si stanno affermando in maniera sempre più decisa, non solo nel panorama nazionale. Nelle partiture dell’album sia Enrico Zanisi sia Mattia Cigalini trovano spazi di manovra molto ampi, nei quali riescono a esprimere la loro valenza su linee melodiche spesso cantabili ed equilibrate.

Teatro Studio / Ipnotico / Euphoria / Orizzonte / Scioglilingua / Camarillo Hospital / Mr. Cao Tico / Conversation With My Soul / Happy Ending Musical

Mattia Cigalini ricorda così i giorni delle registrazioni: «Registrare questo album è stata un'esperienza splendida. L'atmosfera era decisamente entusiastica e pregna di "curiosità artistica": gli sforzi di ciascuno hanno servito la causa di una costante ricerca all'insegna del rischio, dell'imprevedibilità, della voglia di forgiare una sonorità in qualche modo riconoscibile. La professionalità e la disponibilità del team dell'Auditorium Parco della Musica ci hanno consentito di lavorare in condizioni ottimali, in serenità, pur nella delicata situazione della registrazione dal vivo».

Renato Sellani: esce il 14 ottobre "Glad There Is You"

Renato Sellani, pubblicherà il nuovo album "Glad There Is You" il prossimo 14 ottobre su etichetta Ponderosa Music& Art. Si tratta di un doppio lavoro antologico, dove ripercorre in piano solo i brani più significativi della sua lunga storia. Inoltre, Sellani presenterà l’album con uno speciale concerto il 13 ottobre al Piccolo Teatro Studio Melato di Milano.

lunedì 6 ottobre 2014

Cristina Donà: La musica è sacra

“Così vicini” (QBL/Believe Rec.) è il nuovo lavoro in studio di Cristina Donà, l’ottavo di una discografia prossima a celebrare i venti anni. Anche in questo caso, come per il precedente “Torno a casa a piedi” (EMI, 2011), le idee espressive sono state messe in pratica insieme a Saverio Lanza, ma nel nuovo lavoro la cantautrice anziché descrivere le storie da un’inquadratura d’insieme è scesa nei particolari, nel dettaglio di una conversazione molto ravvicinata

Sono passati circa tre anni dal precedente “Torno a casa a piedi”. Qual è il punto di congiunzione con il nuovo “Così vicini”? La presenza di Saverio Lanza crea, tra i due album, una certa continuità musicale. La voglia è sempre quella di allargare le possibilità espressive, ed è il motivo principale per cui collaboro con lui, che è un ottimo musicista e direttore d’orchestra. Con Saverio si possono affrontare percorsi diversi. Ogni volta cerco di portare all’ascoltatore degli spunti nuovi, e per me questo è diventato un processo di lavoro indispensabile.

Dal punto di vista tematico sono due album legati tra loro? Se non ci fosse stato “Torno a casa a piedi” non ci sarebbe “Così vicini”. Il primo è un racconto di storie e di momenti di vita ripresi da lontano, da una prospettiva d’insieme, mentre il nuovo album, come s’intuisce già dal titolo, si prefigge di entrare all'interno delle tematiche. I brani rimandano a un’immagine stretta, che entra nel dettaglio e che racconta le storie in profondità. Forse, nella scrittura dei testi, sono più legata a questa seconda modalità, anche se entrambe mi appartengono. Sono contenta di essermi cimentata in un lavoro come “Torno a casa a piedi”, e forse un giorno ci tornerò, anche perché mi piace cambiare un po’ prospettiva, altrimenti ci si ripete all’infinito. Ho voglia di cambiare, a costo di perdere qualche ascoltatore. Questo doppio aspetto del mio modo di esprimermi mi permette anche nei live di avere delle possibili alternanze tra i brani, altrimenti sarei la prima ad annoiarmi.

Dall’ascolto del nuovo album emerge una sensazione di essenzialità, sia riguardo ai testi sia per la musica. Questo obiettivo è stato ottentuto con un processo di sottrazione molto attento? Mi fa piacere che si colga questo aspetto. C’era la voglia di dire con poco le cose più importanti. La conversazione a due risulta efficace senza troppi giri di parole. Quando ho ripreso gli appunti dei testi, ho setacciato il tutto per ottenere una sintesi. Non è un album scarno, ma più essenziale del precedente. I suoni e gli strumenti non sono un coro sotto la voce, fanno parte dell’immagine ravvicinata, ma la voce vuole essere vicina all’orecchio di chi ascolta e la musica le lascia volontariamente spazio. C’era l’esigenza di definizione. Gli elementi dell’album sono definiti e hanno ognuno una loro personalità.

Affiora anche una certa nostalgia, a cominciare dal primo brano in scaletta Così vicini. Nel testo si parla di un periodo della mia infanzia, ma Così vicini è, musicalmente parlando, una dedica d’amore, palese, agli anni Settanta. C’è nostalgia per un periodo in cui c’erano tempi e prospettive diverse, anche d’immaginazione collettiva. In genere però non sono per la nostalgia, e credo ci sia del buono anche nei nostri tempi.

Tempi caratterizzati dall’utilizzo della tecnologia, anche per i rapporti interpersonali, al punto che le conversazioni a due sono sempre meno frequenti. La tecnologia può darci una mano, senza dubbio, ma noi, per molti motivi, siamo un po’ primitivi nell’utilizzarla. La usiamo in modo improprio, non per quello che ci serve, ma spesso per complicarci la vita, anche nei rapporti con gli altri. Certo, la usiamo per lavoro, ma questo un po’ lo impone chi ci dà da lavorare.

A proposito di datori di lavoro, non collaborare più con una major ti ha reso più tranquilla? Ci tengo a dire che, fortunatamente, nel periodio di collaborazione con la EMI, in particolare con Enrico Romano, non ho mai avuto costrizioni e imposizioni da parte loro. Capisco che questo non sempre accade, ma voglio sottolineare il fatto che con loro mi sono trovata bene. Detto questo, so perfettamente che i network, per qualche strana ragione, non mandano molto le mie canzoni. Non avere certe preoccupazioni legate ai risultati, di vendita e di visibilità, aiuta, perché non ci sono parametri. L’unico obiettivo è fare la cosa migliore che puoi fare per chi ti ascolta. Anche per il nuovo album avevo questa idea in mente. Non è dunque cambiato molto da lavorare per una major o autoprodursi. Forse c’è solo un impegno economico diverso, ma il lato artistico è il medesimo. Inoltre, l’ufficio stampa di una major, per un artista come me, ha un impiego di tempo limitato; siamo in un periodo dove i dischi si vendono pochissimo, quindi, a mio avviso, questo era il momento migliore per rischiare in proprio.

Durante gli showcase di presentazione dell’album hai dichiarato: «La musica è soprattutto emotività». Per me la musica è sacra. Non so definirla in un altro modo. Cantare ha in sé una sacralità. Quando canto avverto questo, certo, c’è una parte di esibizionismo, ma c’è soprattutto la gioia di cantare. Non riuscirei a cantare una cosa che non mi piace. Avrei una crisi, mi ammalerei.

Parli di sacralità in un momento storico dove la musica è diventata un sottofondo, un prodotto usa e getta. Come vivi questa situazione? Lo vivo malissimo. Mi sto facendo paladina riguardo il sostegno agli artisti, a livello economico, da parte di chi ascolta la musica. Tante persone credono che una realtà come Spotify, o simili, possa dare un introito ai musicisti, ma, al di là dei grandi nomi, a noi non arriva praticamente niente. In Italia è difficile vivere con questo mestiere. È diventato un lavoro per chi se lo può permettere, non per chi ha la vera passione e la volontà di farlo. Appena posso cerco di spiegare che chi compra la musica, sia in forma fisica sia digitale, dà la possiblità all’artista di fare il suo lavoro. Dietro a un disco, fatto salvo per rari casi, c’è un lavoro pazzesco. Io curo mille aspetti di un disco, e sto attenta anche ai secondi che ci sono tra un brano e l’altro.

“Così vicini” è uscito anche su vinile. Sì, il vinile sta tornando di tendenza. L’ho fatto anche perché non avevo nessun vinile nella mia discografia e i miei ammiratori ne avevavo fatto richiesta. Mi fa piacere che sia uscito, perché il disco in vinile ha dei tempi e una qualità di ascolto diversi. Appena ho fiutato la vaga possibilità di farlo non me la sono fatta scappare.

Ti interessi anche di altre forme artistiche. In che modo influenzano la tua musica? La filosofia, anche se l’ho solo sfiorata, mi ha aperto mondi inespolrati. Poi c’è la poesia e, per tanti anni, il cinema è stato la mia fonte d’ispirazione. Moretti, Truffaut e Wenders, solo per citarne alcuni, con il loro modo di raccontare mi hanno spalancato molti orizzonti. Non so dire in cosa il cinema mi abbia influenzata, anche se i miei testi rimandano molto spesso a immagini. Poi ci sono brani, come Universo o L’infinito nella testa, che arrivano da dei saggi che ho amato sulla meccanica quantistica o la teoria delle stringhe, che ci mostrano soluzioni diverse rispetto a ciò che accade nelle nostre vite. Sto leggendo “Frammenti di un insegnamento sconosciuto”, dove ci sono punti di vista che mi influenzano, come d’altra parte la disciplina dello yoga, che pratico da una decina d’anni, che mi sta facendo molto bene.

Da piccola volevi diventare ballerina, hai ancora la passione per la danza? Sì, facevo danza classica da piccola e la danza mi è sempre piaciuta molto, come del resto il disegno. Poi ho scelto il liceo artistico, ma la danza è un’espressione meravigliosa, che coinvolge tutto il corpo. Mi dispiace non aver fatto più niente in tal senso. In un’altra vita farò la percussionista danzatrice, visto che le percussioni sono un altro mio amore.

È destinata a un’altra vita anche la collaborazione con Nigel Godrich? Tempo fa hai dichiarato che si tratta di uno dei tuoi desideri. Lui ha fatto cose meravigliose, come altri grandi come Brian Eno e Daniel Lanois. Il problema è economico, ma a voltre nella vita non si può mai sapere. Per esempio, in passato, avrei dovuto fare delle cose con Phil Manzanera, anche se poi non se ne è fatto nulla. Del resto non avrei mai pensato di finire su riviste importanti come Mojo, o andare alla BBC, o di avere recensioni in Inghilterra, quindi non si può mai sapere.

Nada, riferendosi alla vostra amicizia, ha detto: «Lei è come me, si dondola in disparte». Ti riconosci in questa affermazione, estrapolata dal brano che avete cantato a Sanremo Luna in piena? Ho digerito quella situazione dove, purtroppo, il microfono è rimasto spento durante l’esecuzione (ride, NdR). Noi siamo artiste che fanno i conti con quello che hanno voglia di dire, non con quello che gli altri si aspettano o vorrebbero farci dire. Lei ha avuto un percorso, per certi versi, più tortuoso del mio, perché è partita molto giovane, forse, anche contro voglia. Io ho iniziato a trent’anni, ho cominciato a scrivere tardi, però quello che ci accomuna e che abbiamo voglia di raccontare quello che ci fa vibrare.

mercoledì 1 ottobre 2014

Miles Davis Quintet: in uscita a dicembre un box di 4CD

Un box di quattro CD, testimonianza di alcune registrazioni dal vivo del Miles Davis Quintet, sarà pubblicato il 2 dicembre dall'etichetta Acrobat. La band, con Wynton Kelly al piano, Paul Chambers al contrabbasso e Jimmy Cobb alla batteria, è ripresa durante la primavera del 1960, nel periodo che segnò la fine della collaborazione con John Coltrane.

Le registrazioni comprendono trasmissioni radio e private che, secondo un comunicato stampa, "sono state precedentemente disponibili in maniera irregolare e frammentaria. Questa è la prima volta che un corpo sostanziale del materiale registrato durante il tour è stato portato insieme in una collezione". I brani sono stati remasterizzati e il box comprende un booklet di trentasei pagine con note di copertina scritte da Simon Spillett.