“In The Morning” testimonia il concerto del trio capitanato da Stefano Battaglia, al Teatro Vittoria di Torino il 28 aprile 2014, completato da Salvatore Maiore al contrabbasso e da Roberto Dani alla batteria. Come il titolo lascia intendere, si tratta di una rivisitazione del repertorio di Alec Wilder, del quale sono riletti sette brani. Quello che si ascolta è un lavoro equilibrato, e la registrazione riflette una grande forza espressiva, rintracciabile sia nel pianismo di Battaglia, sempre misurato, elegante e mai stucchevole, sia nei movimenti d’insieme, basati su un interplay rodato alla perfezione. Il concerto ruota attorno alla forza melodica dei temi, e si snoda attraverso momenti essenziali, cameristici, e situazioni dal respiro più intenso, trovando la sua originalità negli arrangiamenti di Stefano Battaglia, il quale ci ha parlato di questa nuova uscita per ECM, come di consueto prodotta da Manfred Eicher, e di altro ancora.
Come è nata l’idea di registrare e pubblicare il concerto di Torino? Il trio è composto da performer, e il meglio di sé lo sprigiona dal vivo. Era tanto tempo che desideravo registrare un live e l’occasione si è determinata attraverso un circuito virtuoso, nel quale un ruolo decisivo, oltre a ECM, l’ha avuto l’amico e musicologo Stefano Zenni, direttore artistico del Festival di Torino, che ha seguito e sostenuto il mio lavoro su Wilder sin dal 2003, quando ho deciso di iniziare a suonare questa musica in concerto. Con lui abbiamo trovato la sala e lo strumento giusti e abbiamo avuto subito la sensazione di aver fatto un concerto con un’energia speciale. Avevamo quasi due ore e mezzo di materiale, bis compresi! Alla fine Eicher ha scelto un’ora abbondante e pubblicato solo la parte che riteneva più convincente. L’ideale sarebbe stato documentare tutti i dodici brani in un doppio album, ma il mercato di ora accoglie difficilmente lavori così ambiziosi e onerosi. La scelta del singolo credo sia più saggia, sebbene un po’ dolorosa per la diversa drammaturgia e la narrativa del concerto che naturalmente chi era lì con noi ricorda in maniera diversa.
Perché hai scelto, da diverso tempo, di lavorare ai brani del compositore Alec Wilder? Insieme a Hoagy Carmichael è il mio songwriter preferito, e sebbene la sua figura sia meno popolare dei “great five” Gershwin, Porter, Berlin, Kern e Rodgers, sia la qualità intrinseca del materiale, sia la vastità trasversale della sua opera merita senza dubbio un’urgente, profonda e appassionata riflessione. Un poco misteriosamente il suo repertorio mantiene un’innocenza, quasi una verginità, proprio perché poco eseguito, o mai eseguito, e arrangiato. È come se non ci fosse ancora stato “raccontato” o “spiegato”. Dopo tanti anni di lavoro durante i quali ho osato mettere mano a quello che è realmente una figura chiave della cultura americana del Novecento, ho sentito necessario inserirmi in questo vuoto, poco comprensibile, e mi sono deciso a iniziare la documentazione di questi sforzi attraverso la pubblicazione di una buona parte del suo repertorio, allo scopo di favorire una maggiore diffusione della sua opera. Certamente ci vorranno più volumi, abbiamo lavorato a più di sessanta songs!
Cosa ti lega in maniera così decisa alla sua figura? Caratterialmente era un americano atipico: riservato, modesto, autoironico, tranquillo, decisamente un americano che non ti aspetti, nel senso che sembrava voler restare il più possibile lontano dalla scena e dagli affari, dalla competizione e il clamore del mondo dello spettacolo, addirittura quasi ritirato dalla vita newyorkese, dimostrando scarsa adesione alle regole del modernismo consumistico delle metropoli. Al contrario, ciò che lo rendeva profondamente americano, in un modo quasi paradigmatico, era l’amore profondo per la sua terra, la vecchia America e la pace della sua campagna, l’America delle montagne, dei fiumi impetuosi e dei laghi ghiacciati, quella dei lunghi viaggi in treno nelle province, attraverso le praterie, l’America incontaminata dei cieli, delle foreste e delle rocce, quelle degli indiani nativi e degli orsi. Sembrava appartenere a una retroguardia colta e raffinata, persuasa che tutto quello sviluppo sfavillante nascondesse anche una decadenza, e questa malinconica lucidità invadeva ogni aspetto della sua vita e dunque della sua musica in una sorta di romanticismo americano pre-industriale. Questa tendenza verso la cultura europea si è evidenziata nel tempo attraverso l’imponente opera cameristica, che ha tuttavia mantenuto elementi di contraddizione, o meglio di contaminazione, mettendo in dialogo e contrasto elementi popolari tipicamente americani e tardoromantici con una scrittura musicale pantonale o post-tonale, ibrida e assai originale, anche rispetto a celebri compatrioti come Ives, Gershwin o Bernstein, che, sebbene assai diversi tra loro, sembravano comunque rappresentare meglio l’America ottimista, e imperialista, del Novecento.
Cosa rappresenta questo lavoro nell’ambito del tuo percorso artistico? È parte di un processo di personale sacralizzazione della melodia, la cui importanza negli anni è via via cresciuta e la cui potenza agisce su di me come un costante punto di riferimento, sia come compositore sia come improvvisatore. Allo stesso tempo è un contatto con la musica popolare e una forma tanto tradizionale come quella della canzone. Il collegamento con queste fonti è divenuto per me necessario, come percorso di collegamento profondo e rivitalizzazione delle musiche di tradizione popolare di tutto il mondo, dal Medioevo a oggi. Percorso che negli ultimi quindici anni mi ha portato ad affrontare diverse centinaia di canzoni di ogni provenienza ed epoca, denominato “Book of Songs”.
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