Si apre con un minuto di silenzio la trentanovesima edizione del Roma Jazz Festival. Un breve raccoglimento per le vittime degli attentati di Parigi del giorno precedente, che separa la triste realtà dai colori della finzione, dello spettacolo. Per l’occasione sale sul palco della Sala Sinopoli il quintetto di Gregory Porter. Il cantante americano piace al pubblico. Ne è testimonianza il tutto esaurito, che rende felice sia il colpo d’occhio e l’atmosfera generale, sia, supponiamo, gli organizzatori del Festival, per la prima volta alle prese con la mancanza del sostegno economico comunale, evidenziato nella conferenza stampa di presentazione. Gregory Porter sa anche farsi piacere: spesso coinvolge il pubblico con un contagioso batti mano; costruisce una scaletta tirata che non lascia troppo spazio alle distrazioni; sprizza energia vitale e una forza espressiva che non conosce flessioni. Il set proposto si protrae per un’ora e mezza. Porter è il catalizzatore dell’intera performance, e alla band sono destinati pochissimi soli. La sua voce, scolpita e potente, riflette la tradizione del gospel, dei canti di lavoro, del soul e di quelle radici afroamericane più che mai presenti nel suo sound, nelle sue dinamiche. Si lascia apprezzare per la solidità, per le vibrazioni a basse frequenze, per l’equilibrato utilizzo dello scat, e soprattutto quando i volumi calano e rimane in duetto con il pianista Chip Crawford, come in Imitation Of Life tratta dal suo album “Be Good” (Motéma, 2012). È lì che emerge il valore di una tessitura di pregio, curata nel dettaglio. Di lui si dice essere sopravvalutato, come se avere successo, dovuto in particolar modo alle vendite dell’album “Liquid Spirit” (Blue Note, 2013), sia una colpa da attribuirgli. Sta di fatto che Porter conosce il suo mestiere, lo svolge non ricorrendo mai a eccessivi ammiccamenti, arrivando al cuore della gente senza cercare scorciatoie e inutili colpi da funambolo.
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