venerdì 1 giugno 2018

Intervista a Roberto Magris

La recente pubblicazione targata JMood “Live In Miami At The WDNA Jazz Gallery” conferma le qualità di performer e compositore di Roberto Magris, pianista affiancato in questa performance dal vivo da Brian Lynch (tromba), Jonathan Gomez (tenore), Chuck Bergeron (contrabbasso), John Yarling (batteria) e Murph Aucamp (congas). Con l’occasione di questa nuova uscita abbiamo raggiunto il pianista triestino per parlare della sua attività e della sua visione della scena jazzistica internazionale


Hai ricordi particolari legati alle serata della registrazione di questo nuovo CD? 
È stata una serata “infuocata”, con musicisti ispirati e pubblico entusiasta. In alcuni brani qualcuno tra il pubblico si è pure alzato a ballare sui ritmi più latin jazz. Come dire, tutti erano a proprio agio e con il sorriso sulle labbra. C’era la situazione ideale per fare musica. Come band leader, di una band di lusso, mi sono sentito molto contento e soddisfatto, visto che abbiamo suonato anche parte di quello che è il mio storico songbook, come African Mood, Blues For My Sleeping Baby, Standard Life e Maliblues.

Perché avete deciso di pubblicare questo concerto? 
Il mio promoter negli Stati Uniti e produttore discografico della JMood era presente in sala e, dal momento che il concerto veniva registrato dalla radio WDNA per trasmetterlo in streaming, ha subito pensato di farsi dare il master. Poi, per il fatto che non avevo ancora in catalogo un “live” negli Stati Uniti e che tutti, musicisti e organizzatori, hanno dato la propria pronta disponibilità, è stato “inevitabile” far uscire questo concerto su CD. Ne sono particolarmente soddisfatto, perché consente di sentire effettivamente come suono dal vivo, senza rete, senza trucchi e senza inganni, e quale musica propongo come leader negli Stati Uniti. Una bella istantanea musicale che, tra l’altro, mi ha dato riscontri eccellenti come una recensione da quattro stelle su DownBeat.

Come si è formato il gruppo? 
Erano anni che il mio amico critico e giornalista Edward Blanco voleva invitarmi a Miami. Quando la cosa si è potuta finalmente concretizzare mi ha messo assieme un gruppo stellare, con i docenti jazz della Frost University di Miami, Brian Lynch, Chuck Bergeron e John Yarling, e due dei più bravi ex-allievi, e oggi musicisti di punta della locale scena jazz, Jonathan Gomez a Murph Aucamp. Sono abituato a lavorare così, incontrando musicisti diversi nelle diverse scene, come avviene ad esempio a Chicago, Los Angeles, Kansas City e anche in posti come Des Moines, nello Iowa, dove ho incontrato musicisti davvero ottimi e scoperto una tradizione del jazz che non conoscevo. Trovo particolarmente stimolante incontrare e lavorare con musicisti diversi e inaspettati. Per esempio, lo scorso anno sono ritornato a Miami per incidere un nuovo CD, che uscirà alla fine del prossimo anno, questa volta in studio di registrazione con un gruppo completamente diverso, con il sassofonista Mark Colby, il leggendario Ira Sullivan, il trombettista Shareef Clayton, e la ritmica formata da Jamie Ousley al basso e Rodolfo Zuniga alla batteria. Il titolo di questo CD sarà “Sun Stone”. A dicembre ci ritornerò nuovamente per concerti e un’ulteriore registrazione, ancora una volta con un gruppo diverso, probabilmente assieme al vibrafonista Alfredo Chacon. Ci sarà senz’altro da divertirsi anche se, nel frattempo, devo “produrre” nei prossimi mesi un ulteriore nuovo programma musicale.

Come si è sviluppata negli anni la collaborazione con la JMood, etichetta con la quale incidi spesso?
 Nel 2006 Paul Collins, impresario di Kansas City, mi organizzò dei concerti a Los Angeles assieme al contrabbassista Art Davis. Suonai alla Jazz Bakery e al Catalina Jazz Club di Hollywood. Le serate andarono molto bene e quindi venni di nuovo invitato a Los Angeles l’anno dopo per suonare e incidere assieme a Idris Muhammad, visto che Paul Collins nel frattempo aveva deciso di dar vita alla JMood Records, e pure a Kansas City per suonare e incidere con Art Davis e il batterista Jimmy “Junebug” Jackson. La sorpresa fu che sia Art Davis sia Idris Muhammad non avevano un loro repertorio né brani originali da suonare e incidere e quindi chiesero a me di “prendere in mano la situazione” e di decidere che cosa suonare. Quando poi venne il momento di decidere il titolo e i credits dei CD, sia Art Davis sia Idris Muhammad dissero che no, i CD non dovevano uscire a nome loro, ma era giusto che uscissero a mio nome visto che alla fine il leader ero stato io. Questo mi fece molto piacere e immediatamente guadagnare un bel credito, e identica situazione si ripropose quando fu la volta di suonare con il batterista Albert “Tootie” Heath e poi con il sassofonista veterano Sam Reed. Così, incisione dopo incisione, sono diventato di fatto e poi formalmente il direttore musicale della JMood, per la quale ho inciso a oggi quindici album “made in USA”, tutti usciti a mio nome. Una bella soddisfazione.

La tua attività si concentra dunque negli States. 
Colgo l’occasione per eliminare l’equivoco sul fatto che io viva in America, come ho letto anche su Wikipedia. Ho sempre vissuto e continuo a vivere a Trieste, ma è vero, sono spesso negli Stati Uniti, per concerti e registrazioni, con base principale a Kansas City, città di cui sono cittadino onorario. Ho anche riferimenti a Miami, Chicago e Los Angeles, dove negli ultimi anni ho suonato e inciso e dove, tra l’altro, ritornerò nei prossimi mesi. Va detto che l’America è grande e vi è una scena jazz praticamente in ogni città, di ogni dimensione, con migliaia di musicisti, dozzine di radio dedicate al jazz, svariate riviste, di cui DownBeat, Jazztimes, Jazziz, New York City Jazz Record, Jazzinside sono soltanto la punta dell’iceberg, e quindi c’è davvero tanto e tanto di diverso. Comunque, posso dire che proprio a partire dai miei primi concerti a Los Angeles nel 2006, mi sono ben inserito in certi ambienti del jazz americano. I critici e le riviste seguono e apprezzano il mio lavoro e soprattutto DownBeat mi riserva sempre una particolare attenzione, il che mi rende molto soddisfatto e motivato ad accettare i sempre nuovi progetti che mi vengono proposti dal mio promoter e produttore Paul Collins.

Come appare la scena jazzistica italiana vista da lì?
Generalmente vi è una innata simpatia e una positiva disposizione verso l’Italia, e conseguentemente verso il jazz italiano, che però è ben conosciuto soltanto da pochi e limitatamente ad alcuni nomi come Rava, Pieranunzi, Bollani, Fresu, Moroni, ai musicisti italiani che operano negli States, come Roberta Gambarini, Marco Pignataro, Antonio Ciacca, il sottoscritto e altri a seconda dei posti in cui ci si trova, o di origine italiana che si sono fatti un nome nella storia del jazz, vedi Tristano, Candoli, Tony Scott, Joe Pass. Posto quindi che la scena jazzistica italiana negli Stati Uniti è vista un po’ confusamente e da un presupposto tutto americano, posso fare un parallelo tra la variegata scena jazz americana, che è in realtà molto più mainstream di quello che si pensi in Italia, e quella italiana, che in realtà è molto più orientata verso il free/musica sperimentale di quel che si pensi in America. Certo, nomi come Mary Halvorson e Vijay Iyer, per dirne due oggi molto gettonati anche in Italia, sono stati sulle copertine delle riviste jazz statunitensi e sono oggetto di interesse e stima di gran parte della critica, ma non mi sembra e non ho la percezione che abbiano fatto breccia nel cuore degli appassionati statunitensi, neanche di quelli più giovani, che – se proprio dovessi fare una sintesi estrema – direi che parteggiano più come gusti e inclinazione, anche professionale, per la “corrente Wynton Marsalis” e il tipo di jazz che si insegna ed esce dalle centinaia di college e università che propongono corsi di jazz, peraltro sempre di alto livello e frequentati anche da europei e italiani. Un’altra percezione che ho, è che stia “culturalmente” sempre più sparendo un certo approccio al jazz di tipo afro-americano - ci sono musicisti afro-americani che, sentendoli, immagineresti “tipicamente” bianchi, quanto a impostazione e retaggio jazzistico, privi di qualsiasi riferimento al blues - e di conseguenza certi musicisti come Nicholas Payton o Logan Richardson calcano la mano su questo tipo di argomenti, secondo me a ragione. Direi che la loro giusta rivendicazione vada rivolta esclusivamente al mondo del jazz americano e alla società americana più in generale, non certo a noi europei, e soprattutto a certi loro colleghi che hanno sposato un percorso didattico e professionale di impronta soltanto quasi accademica: il jazz pronto a diventare una musica accademica, anche nelle sue cosiddette avanguardie, perdendo via via le originarie e fin qui sempre presenti connotazioni afro-americane che, anche secondo molti, ne sono la sua vera essenza. Qui c’è il vero “problema” e negli States, mi sembra che la scissione si stia consumando proprio a partire dalle basi di questa musica, dal concetto di tradizione e dai retaggi culturali di partenza. Ma, come dicevo, “il pubblico” mi sembra ancora schierato sul jazz “di base” e continua ad amare i grandi maestri e il jazz denominato, con connotazione sempre positiva, “mainstream”, rendendosi conto che il jazz è tradizione per gli Stati Uniti. In Europa non credo che siano ancora chiari questi aspetti e di conseguenza si immagini erroneamente un ritorno a un jazz di ispirazione anche politica. Non credo proprio. Oppure una felice unione con un certo modo europeizzante di intendere il jazz, ECM per fare un esempio banale, il che è in realtà un “abbraccio mortale” per il blues e il beat afroamericano e per l’armonia che proviene da tale imprinting afro-americano, due esempi per tutti: Monk e il mondo di Mingus.

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