martedì 24 novembre 2015

Ivan Valentini: “Rust And Blue” [Autoproduzione, 2015]

Il sassofonista Ivan Valentini organizza un nuovo quartetto per dare forma alle undici tracce originali del suo “Rust And Blue”, titolo che fa riferimento a un dipinto dell’artista Mark Rothko. Al suo fianco, nei primi piani espressivi dell’album, si muove Luca Perciballi alla chitarra elettrica, e all’elettronica, mentre le trame ritmiche sono imbastite da Luca Cotti al basso elettrico e da Riccardo La Foresta alla batteria. Il lavoro evidenzia una netta versatilità stilistica, in alcuni episodi piegata verso ruvide sonorità prossime al rock, dove la materia sonora diventa luogo comune di scambio per improvvisazioni e deragliamenti tematici. La componente melodica, e di scrittura in genere, gioca un ruolo importante, ma è talvolta preferita a situazioni free e slegate da indicazioni sul pentagramma. Nel complesso si tratta di un album distinguibile, per intenzioni e approccio generale, e dalla forte personalità.

https://ivanvalentinirustandblue.bandcamp.com/releases

mercoledì 18 novembre 2015

Enrico Pieranunzi: “Proximity” [CAM Jazz, 2015]

Enrico Pieranunzi organizza un nuovo quartetto, completato da Ralph Alessi alla tromba, Donny McCaslin al sax e Matt Penman al contrabbasso, per dare forma alle otto composizioni, alcune delle quali inedite o incise con altre formazioni, dell’album “Proximity”, edito da CAM Jazz. Si tratta di un lavoro che si distingue sia per le dinamiche formali, rese particolarmente interessanti dall’assenza in line up di un batterista, sia per la profondità espressiva dei temi, spesso lineari e cantabili. I musicisti si muovono in una sorta di equilibrio ritmico apparentemente precario, dove la musica sembra “galleggiare” su fili invisibili di condivisione d’intenti. Ne deriva un album dove si apprezza, oltre alle qualità di performer di ogni interprete, soprattutto la stoffa pregiata che avvolge il pianismo di Pieranunzi, e quel suo modo di trascinare con garbo l’ascoltatore verso il fulcro del discorso creativo. Al pianista romano abbiamo chiesto le impressioni e i motivi riguardo questa nuova avventura artistica, e quelle che seguono sono una serie di “note a margine di Proximity”, più che mai preziose ed esplicative, oltre che piene di curiosità e spunti di riflessione:

«Ogni volta che incido un nuovo CD vivo una grande emozione. Non solo perché so che suonerò con musicisti di spessore, come quelli riuniti in “Proximity”, ma perché ho l’opportunità di scrivere nuovi brani o, anche, di recuperare materiali che stanno lì da tempo e che, per qualche motivo, non sono stati mai incisi, né sono stati mai suonati in concerto. È andata così anche per “Proximity”.

(In)canto, il brano d’apertura, è per esempio un pezzo che ho scritto tantissimo tempo fa, a metà degli anni Ottanta, ma che non era stato finora mai registrato e neanche mai suonato in pubblico.

Il secondo brano Line For Lee è un pezzo a cui sono particolarmente affezionato. È dedicato a un gigante del jazz come Lee Konitz, che nella mia storia musicale ha svolto un ruolo importantissimo. Nello scorcio finale degli anni Ottanta abbiamo fatto diversi concerti e un paio di dischi insieme, ed è nato anche un rapporto umano importante, che dura tuttora. Il brano è stato scritto nel 1987, come mio regalo-omaggio a Lee in occasione del suo sessantesimo compleanno. Anche questo brano, come (In)canto, non era mai stato registrato finora e sono felice che questo sia finalmente accaduto, anche se con un notevole ritardo rispetto a quella ricorrenza...

Cinque degli otto brani presenti in “Proximity”, tutti meno i due di cui ho parlato finora e Proximity, scritto per l’occasione, sono già comparsi in miei precedenti CD in trio, Sundays anche in un album in quartetto con Kenny Wheeler, Marc Johnson e Joey Baron. È un’operazione che faccio spesso: prendo brani che usualmente suono in trio e li arrangio per un’altra formazione. Mi piace sentire i miei brani interpretati da altri. Alessi e McCaslin sono dotati di una così grande personalità e di un approccio interpretativo così originale che i brani, comparati con le precedenti versioni, suonano come un racconto musicale completamente nuovo.

Simul, in particolare, è stato registrato in duo, con Ralph Alessi. La ragione di questa scelta è nella straordinaria affinità tra il mood del pezzo e lo specialissimo mondo musicale di questo formidabile trombettista. Ce ne siamo accorti subito, appena abbiamo cominciato a provare il brano, e senza esitare, ci siamo lanciati in un’avventurosa e divertita take in duo.

Una citazione a parte, infine, per Five Plus Five, il brano conclusivo del CD. Intanto, il titolo. Si tratta di un blues il cui il tema è piuttosto anomalo perché i periodi musicali sono tutti di cinque battute. Una sorta di scherzo che ho voluto fare a me stesso per sottolineare tutti i “cinque” che mi circondavano nei giorni in cui ho buttato giù il pezzo, sono nato il 5 dicembre ed erano i giorni intorno al mio cinquantacinquesimo compleanno, come dice chiaramente anche il titolo... A parte questo, la cosa interessante è che su suggerimento del produttore della CAM Jazz Ermanno Basso ho suonato in questo brano solo l’interno del pianoforte, evitando accuratamente... la tastiera. Se si presta attenzione ci si accorge facilmente che sullo sfondo delle belle improvvisazioni dei miei partner ci sono suoni strani, colpi e sfregamenti di corde più o meno sordi, e curiose risonanze. Ebbene, l’autore estemporaneo di queste stranezze sono io che, nella circostanza, ho indossato la veste del “percussionista”. Forse il motivo per cui ho accettato con entusiasmo questa situazione è “subliminale”: l’unico strumento che, a parte il pianoforte, mi sarebbe sempre piaciuto suonare è proprio la batteria... e d’altra parte almeno un brano con un po’ di percussione nel CD non ci stava male.

Oltre all’idea della mia inusuale performance come pianista/non-pianista anche il concept della formula drumless di “Proximity” è del produttore Ermanno Basso. Dopo i tantissimi dischi in trio registrati per la CAM Jazz, Ermanno mi ha proposto di realizzare un CD con un suono diverso, e l’idea mi è piaciuta moltissimo. In realtà non era la prima volta nel corso della mia attività che mi trovavo a suonare, comporre e arrangiare, per un gruppo senza batteria. Era accaduto all’inizio del decennio scorso, con i dischi per la Egea, tra i quali “Racconti mediterranei”, “Trasnoche” e “Les Amants”. In quei dischi la non presenza della percussione - oltre naturalmente al tipo di brani che avevo composto - orientava la musica decisamente verso una dimensione cameristico-europea. “Proximity” è invece un disco completamente “americano”, almeno così mi sembra, sia per i musicisti che vi suonano, sia per i materiali e, chissà, anche perché è stato registrato a New York e in uno studio storico come il Sear Sound.

Per concludere ci si potrebbe chiedere come può essere “americano” il materiale prodotto da un pianista... italiano. Si dice che il pianista in questione, da sempre, abbia nella sua musica e nel suo modo di scrivere e suonare due nature, una europea, l’altra americana. Due nature ben mescolate o separate? Chissà... E poi: potrebbero essere anche più di due? Non è facile trovare risposte. Magari anche, forse: ma è così importante trovarne?».

domenica 15 novembre 2015

Gregory Porter Quintet: Live At Parco della Musica, Roma 14.11.2015

Si apre con un minuto di silenzio la trentanovesima edizione del Roma Jazz Festival. Un breve raccoglimento per le vittime degli attentati di Parigi del giorno precedente, che separa la triste realtà dai colori della finzione, dello spettacolo. Per l’occasione sale sul palco della Sala Sinopoli il quintetto di Gregory Porter. Il cantante americano piace al pubblico. Ne è testimonianza il tutto esaurito, che rende felice sia il colpo d’occhio e l’atmosfera generale, sia, supponiamo, gli organizzatori del Festival, per la prima volta alle prese con la mancanza del sostegno economico comunale, evidenziato nella conferenza stampa di presentazione. Gregory Porter sa anche farsi piacere: spesso coinvolge il pubblico con un contagioso batti mano; costruisce una scaletta tirata che non lascia troppo spazio alle distrazioni; sprizza energia vitale e una forza espressiva che non conosce flessioni. Il set proposto si protrae per un’ora e mezza. Porter è il catalizzatore dell’intera performance, e alla band sono destinati pochissimi soli. La sua voce, scolpita e potente, riflette la tradizione del gospel, dei canti di lavoro, del soul e di quelle radici afroamericane più che mai presenti nel suo sound, nelle sue dinamiche. Si lascia apprezzare per la solidità, per le vibrazioni a basse frequenze, per l’equilibrato utilizzo dello scat, e soprattutto quando i volumi calano e rimane in duetto con il pianista Chip Crawford, come in Imitation Of Life tratta dal suo album “Be Good” (Motéma, 2012). È lì che emerge il valore di una tessitura di pregio, curata nel dettaglio. Di lui si dice essere sopravvalutato, come se avere successo, dovuto in particolar modo alle vendite dell’album “Liquid Spirit” (Blue Note, 2013), sia una colpa da attribuirgli. Sta di fatto che Porter conosce il suo mestiere, lo svolge non ricorrendo mai a eccessivi ammiccamenti, arrivando al cuore della gente senza cercare scorciatoie e inutili colpi da funambolo.

venerdì 13 novembre 2015

Stefano Battaglia Trio: “In The Morning – Music Of Alec Wilder” [ECM, 2015]

“In The Morning” testimonia il concerto del trio capitanato da Stefano Battaglia, al Teatro Vittoria di Torino il 28 aprile 2014, completato da Salvatore Maiore al contrabbasso e da Roberto Dani alla batteria. Come il titolo lascia intendere, si tratta di una rivisitazione del repertorio di Alec Wilder, del quale sono riletti sette brani. Quello che si ascolta è un lavoro equilibrato, e la registrazione riflette una grande forza espressiva, rintracciabile sia nel pianismo di Battaglia, sempre misurato, elegante e mai stucchevole, sia nei movimenti d’insieme, basati su un interplay rodato alla perfezione. Il concerto ruota attorno alla forza melodica dei temi, e si snoda attraverso momenti essenziali, cameristici, e situazioni dal respiro più intenso, trovando la sua originalità negli arrangiamenti di Stefano Battaglia, il quale ci ha parlato di questa nuova uscita per ECM, come di consueto prodotta da Manfred Eicher, e di altro ancora.

Come è nata l’idea di registrare e pubblicare il concerto di Torino? Il trio è composto da performer, e il meglio di sé lo sprigiona dal vivo. Era tanto tempo che desideravo registrare un live e l’occasione si è determinata attraverso un circuito virtuoso, nel quale un ruolo decisivo, oltre a ECM, l’ha avuto l’amico e musicologo Stefano Zenni, direttore artistico del Festival di Torino, che ha seguito e sostenuto il mio lavoro su Wilder sin dal 2003, quando ho deciso di iniziare a suonare questa musica in concerto. Con lui abbiamo trovato la sala e lo strumento giusti e abbiamo avuto subito la sensazione di aver fatto un concerto con un’energia speciale. Avevamo quasi due ore e mezzo di materiale, bis compresi! Alla fine Eicher ha scelto un’ora abbondante e pubblicato solo la parte che riteneva più convincente. L’ideale sarebbe stato documentare tutti i dodici brani in un doppio album, ma il mercato di ora accoglie difficilmente lavori così ambiziosi e onerosi. La scelta del singolo credo sia più saggia, sebbene un po’ dolorosa per la diversa drammaturgia e la narrativa del concerto che naturalmente chi era lì con noi ricorda in maniera diversa.

Perché hai scelto, da diverso tempo, di lavorare ai brani del compositore Alec Wilder? Insieme a Hoagy Carmichael è il mio songwriter preferito, e sebbene la sua figura sia meno popolare dei “great five” Gershwin, Porter, Berlin, Kern e Rodgers, sia la qualità intrinseca del materiale, sia la vastità trasversale della sua opera merita senza dubbio un’urgente, profonda e appassionata riflessione. Un poco misteriosamente il suo repertorio mantiene un’innocenza, quasi una verginità, proprio perché poco eseguito, o mai eseguito, e arrangiato. È come se non ci fosse ancora stato “raccontato” o “spiegato”. Dopo tanti anni di lavoro durante i quali ho osato mettere mano a quello che è realmente una figura chiave della cultura americana del Novecento, ho sentito necessario inserirmi in questo vuoto, poco comprensibile, e mi sono deciso a iniziare la documentazione di questi sforzi attraverso la pubblicazione di una buona parte del suo repertorio, allo scopo di favorire una maggiore diffusione della sua opera. Certamente ci vorranno più volumi, abbiamo lavorato a più di sessanta songs!

Cosa ti lega in maniera così decisa alla sua figura? Caratterialmente era un americano atipico: riservato, modesto, autoironico, tranquillo, decisamente un americano che non ti aspetti, nel senso che sembrava voler restare il più possibile lontano dalla scena e dagli affari, dalla competizione e il clamore del mondo dello spettacolo, addirittura quasi ritirato dalla vita newyorkese, dimostrando scarsa adesione alle regole del modernismo consumistico delle metropoli. Al contrario, ciò che lo rendeva profondamente americano, in un modo quasi paradigmatico, era l’amore profondo per la sua terra, la vecchia America e la pace della sua campagna, l’America delle montagne, dei fiumi impetuosi e dei laghi ghiacciati, quella dei lunghi viaggi in treno nelle province, attraverso le praterie, l’America incontaminata dei cieli, delle foreste e delle rocce, quelle degli indiani nativi e degli orsi. Sembrava appartenere a una retroguardia colta e raffinata, persuasa che tutto quello sviluppo sfavillante nascondesse anche una decadenza, e questa malinconica lucidità invadeva ogni aspetto della sua vita e dunque della sua musica in una sorta di romanticismo americano pre-industriale. Questa tendenza verso la cultura europea si è evidenziata nel tempo attraverso l’imponente opera cameristica, che ha tuttavia mantenuto elementi di contraddizione, o meglio di contaminazione, mettendo in dialogo e contrasto elementi popolari tipicamente americani e tardoromantici con una scrittura musicale pantonale o post-tonale, ibrida e assai originale, anche rispetto a celebri compatrioti come Ives, Gershwin o Bernstein, che, sebbene assai diversi tra loro, sembravano comunque rappresentare meglio l’America ottimista, e imperialista, del Novecento.

Cosa rappresenta questo lavoro nell’ambito del tuo percorso artistico? È parte di un processo di personale sacralizzazione della melodia, la cui importanza negli anni è via via cresciuta e la cui potenza agisce su di me come un costante punto di riferimento, sia come compositore sia come improvvisatore. Allo stesso tempo è un contatto con la musica popolare e una forma tanto tradizionale come quella della canzone. Il collegamento con queste fonti è divenuto per me necessario, come percorso di collegamento profondo e rivitalizzazione delle musiche di tradizione popolare di tutto il mondo, dal Medioevo a oggi. Percorso che negli ultimi quindici anni mi ha portato ad affrontare diverse centinaia di canzoni di ogni provenienza ed epoca, denominato “Book of Songs”.

ECM player

mercoledì 11 novembre 2015

Living Coltrane: Writing 4 Trane [AlfaMusic, 2015]

Come sottolinea Maurizio Franco nelle note di copertina, in questa nuova incisione per AlfaMusic il quartetto Living Coltrane, a differenza delle due precedenti uscite improntate su rivisitazioni del repertorio coltraniano, propone dei brani originali basati non sul “come” li avrebbe pensati e scritti John Coltrane, ma “per” John Coltrane. Ne deriva un album dalla grande forza espressiva, spesso riflessa nelle note emesse dal sax di Stefano “Cocco” Cantini, il quale si lascia ampiamente apprezzare sia nei molti temi lineari, cantabili, sia in alcuni momenti di maggiore istintività, al limite della ferocia. Un lavoro, dunque, in equilibrio tra misura e fantasia, tra passaggi calibrati e giochi d’improvvisazione dove Francesco Maccianti al pianoforte, Ares Tavolazzi al contrabbasso e Piero Borri alla batteria, completano un significativo incastro formale. Coltrane c’è, ma rimane in filigrana, come ci ha raccontato Stefano “Cocco” Cantini: «Coltrane è stato fondamentale non solo nel jazz, ma nell’intera storia del Novecento musicale. Questo nuovo lavoro racchiude brani originali scritti per lui, perché il suo sound, il suo linguaggio, è una sorta di “colore” immediatamente riconoscibile in mezzo a tanti. Noi abbiamo mantenuto questo sound, che ci piace tantissimo, però scrivendo la nostra musica. Ho suonato di tutto nella vita, ma questo tipo di atteggiamento è quello che più mi dà gratificazione. Il periodo storico di Coltrane ha permeato tantissime forme musicali, e dobbiamo avere il pudore di riconoscere questo aspetto. L’album è scritto per un grande maestro, che ci ha dato veramente tanto. Il quartetto sembra avere tutte le intenzioni di proseguire il cammino, come lo stesso Cantini ci ha confermato: «Con “Writing 4 Trane” abbiamo aperto una nuova porta. È un percorso nuovo di musica originale, che mantiene un determinato atteggiamento, che dal vivo fa emergere il suo aspetto migliore. Noi si gode nel suonare, e siccome quella che viviamo è una vita di problemi e sofferenze, almeno nel suonare voglio trovare il piacere (ride, NdR)».

martedì 10 novembre 2015

Ameen Saleem: “The Groove Lab” [Via Veneto Jazz, 2015]

“The Groove Lab” è il primo album nelle vesti di leader del bassista Ameen Saleem, finora apprezzato in diverse situazioni, come quelle intraprese alla corte di Roy Hargrove. Il trombettista è tra i molti musicisti coinvolti in questo progetto, una sorta di laboratorio, come il titolo lascia intendere, basato su brani scritti da Saleem, dove si intrecciano elementi di funk, soul e jazz in senso stretto. I valori espressivi emergono dalle linee melodiche proposte, sempre cantabili, impreziosite, oltre che dal sax di Stacy Dillard, anche dalla chitarra di Craig Magnano e dalle voci di Ramona Dunlap e Mavis “Swan” Poole. Le forme ritmiche trasudano groove profondi e ipnotici, dove si incastrano le figure pianistiche di Cyrus Chestnut, in alcuni passaggi anche al piano elettrico, e la forza muscolare dei batteristi Jeremy “Bean” Clemons e Gregory Hutchinson. Il leader si lascia apprezzare sia quando svolge ruoli di sottofondo, sia quando prende la scena con soli corposi e mai stucchevoli, in un insieme che riflette contemporaneità e legami con le radici più profonde della black american music.

Juno Download

Sokratis Sinopoulos Quartet: “Eight Winds” [ECM, 2015]

Registrato nell’aprile 2014 presso i Sierra Studios di Atene, “Eight Winds” contiene dodici brani di Sokratis Sinopoulos, che realizza questo lavoro con un quartetto completato da Yann Keerim al pianoforte, Dimitris Tsekouras al contrabbasso e Dimitris Emmanouil alla batteria. Le atmosfere sono misurate, e i significati espressivi dell’album sono racchiusi nelle melodie prodotte da Sinopoulos, sempre cantabili e lineari, il quale utilizza la sua lyra politiki come strumento catalizzatore dell’intero lavoro. I temi proposti sono melanconici, e il leader trova nel pianismo di Keerim un ideale elemento di dialogo e di contrapposizione formale, in un progetto artistico dove si incontrano tradizione ellenica e significati di contemporaneità.

ECM Player

sabato 7 novembre 2015

Luca Aquino: “OverDOORS” [Tuk Music, 2015]

La formazione musicale di Luca Aquino è passata anche attraverso l’ascolto delle grandi rock band degli anni Sessanta e Settanta, tra le quali i Doors hanno svolto un ruolo di assoluta centralità. In “OverDOORS” il trombettista campano rende omaggio alla seminale band californiana, con un approccio e delle scelte di arrangiamento a metà strada tra la rivisitazione in stile cover e la rielaborazione quasi totale di alcuni celebri temi. Quello che si ascolta è un lavoro dalla forte personalità, sincretico e sfaccettato, soprattutto sotto l’aspetto timbrico, data la presenza in line up di musicisti duttili come Dario Miranda al basso elettrico, Antonio Jasevoli alle chitarre e Lele Tommasi alla batteria. Tra le pagine che sintetizzano e rendono chiare le intenzioni di Aquino troviamo Light My Fire, trasfigurata e resa feroce quel tanto che basta per proiettare i significati d’insieme oltre gli steccati stilistici. Le voci degli ospiti Rodolphe Burger, Petra Magoni e Carolina Bubbico ampliano ulteriormente l’assetto formale della scaletta proposta.

mercoledì 4 novembre 2015

Noemi Nori: “Al di là di me” [AlfaMusic, 2015]

In “Al di là di me” la cantante Naomi Nori è affiancata da un trio di assoluto valore, composto da Alessando Gwis al pianoforte, Alfredo Paixão al basso e da Israel Varela alle percussioni. In poco più di mezzora troviamo racchiusi nove brani, tra originali e rivisitazioni, quasi tutti cantati in portoghese e riferibili all’area della musica popolare brasiliana. Gli andamenti spesso sono misurati, la tessitura melodica e timbrica di ogni brano è curata nel dettaglio e la voce di Noemi Nori si lascia apprezzare per il profondo senso lirico. La sua è una forza espressiva che emerge sia nei passaggi più intimi, vedi la ballad Mundo raro di José Alfredo Jimenez, sia in quelli d’insieme, come in Gingi, il brano dedicato alla figlia Ginevra, tra l’altro autrice del disegno di copertina, dove l’ascoltiamo cantare in italiano. I testi di alcuni brani sono poesie della poetessa brasiliana Vera Lúcia de Oliveira.

È la stessa Noemi Nori a raccontarci qualcosa in più riguardo questo suo disco d’esordio: «Il progetto è nato grazie al fortunato incontro con un grande artista come Israel Varela. Da tempo come musicista sentivo la necessità di creare qualcosa di mio, e Israel si è subito interessato al progetto proponendosi come produttore artistico e coinvolgendo musicisti come Alessandro Gwis e Alfredo Paixão. L’album è stato concepito per essere un lavoro dedicato alla musica brasiliana, una passione che coltivo dall’età di dodici anni, ma credo che in ogni brano sia possibile scorgere quello che è stato il mio background musicale, e Israel ha valorizzato e seguito negli arrangiamenti questo tipo di direzione. Molti, conoscendomi, si aspettavano maggiori contatti con la musica brasiliana, ma forse era proprio un “al di là di me” che volevo raccontare e raccontarmi. Inoltre, devo sottolineare la collaborazione con Vera Lúcia de Oliveira, una persona di una delicatezza e umiltà straordinaria, che non ha esitato un attimo nell’affidarmi delle sue poesie».

Francesco Bearzatti Tinissima 4tet: “This Machine Kills Fascists” [CAM Jazz, 2015]

Il titolo “This Machine Kills Fascists” riprende la scritta sulla chitarra di Woody Guthrie, il cantautore americano al quale si ispira in questo nuovo lavoro il Tinissima 4tet capitanato da Francesco Bearzatti, anche in questa occasione affiancato da Giovanni Falzone alla tromba, Danilo Gallo al basso e Zeno De Rossi alla batteria. Si tratta di un album concettuale, dove memoria e attualità si incontrano per raccontare una storia musicalmente tradotta da venature blues, temi cantabili, fantasiose onomatopee, rigore ritmico e movimenti d’insieme impreziositi da incisivi slanci solisti. La scaletta si compone di brani originali firmati da Bearzatti, fatta eccezione per la rivisitazione di This Land Is Your Land di Guthrie, e ospita la voce di Petra Magoni in One For Sacco e Vanzetti, un brano emblematico che ben riassume le intenzioni del quartetto, dato il suo incedere lento e sofferente che proietta i significati concettuali dell’album in una profonda riflessione sociale e politica.