“X-Ray” segna l’inizio di due grandi storie: quella della Auand di Marco Valente, etichetta tra le più intraprendenti in circolazione malgrado la prima decade degli anni Duemila abbia di fatto sancito il passaggio dal supporto fisico alla fruizione “liquida”; e quella di Gianluca Petrella come leader, da lì a poco ritenuto come una delle più belle e interessanti realtà del jazz italiano ed europeo. Nelle undici tracce proposte si può ascoltare un grande quartetto, con Javier Girotto spesso sugli scudi con il suono profondo e importante del sax baritono, con il quale fa il paio il trombone di Petrella, già intriso della sua anima bluesy, scura e impenetrabile. Completano il quadro il batterista Francesco Sotgiu e soprattutto il bassista Paul Rogers, capace di far ulteriormente vibrare le atmosfere con un lavoro di grande sostanza e flessibilità. In scaletta, tra le cose migliori, va segnalata l’ipnotica “Crunch”, con la sua forma in divenire, e la lamentosa “Reflex”, spledida nella sua concezione rilassata e tragica, che se chiudi gli occhi sembra di stare in un posto sperduto verso l’ora del tramonto. Nel complesso si tratta di un album che mantiene intatta - a distanza di oltre dieci anni - la concezione comunicativa e quella tensione esecutiva tipica degli eventi importani e decisivi. File under: nuovi classici. Nota: il cd include anche una traccia ROM con foto e brevi video della realizzazione di X-Ray presso l’Artesuono Studio di Stefano Amerio.
Gianluca Petrella Tubolibre: Slaves (Spacebone Records, 2011)
Gianluca Petrella continua con il progetto Tubolibre - alla prima uscita discografica - la sua personale esplorazione musicale. Stavolta, al centro della ricerca, c'è il concetto di schiavitù, che ancora oggi affiora in molti aspetti della nostra quotidianeità. Slaves non è un disco morbido, le linee sonore sono spesso velate di malinconia e strette in una morsa ritmico/melodica che ben idealizza le catene raffigurate in copertina. Ma sono proprio le tensioni tra gli strumenti, l'acidità di un groove scuro e gli andamenti tutt'altro che prevedibili, a rendere questo lavoro particolarmente interessante. Il trombonista mette in scaletta, stravolgendoli, un paio di passaggi accreditati a bluesman storici, come Skip James e Joe Williams, costruendo degli arrangiamenti capaci di far risaltare la duttilità ritmica di Cristiano Calcagnile, la particolare colorazione timbrica di Mauro Ottolini (al trombone, sousafono e tromba basso) e le sferzate chitarristiche di Gabrio Baldacci.I brani autografi si distinguono per la loro grande intensità e per la lentezza esecutiva, con la quale rimandano in mente immagini di sofferenza e soprusi. Una menzione speciale va alla title-track, che con i suoi labirintici ventidue minuti risulta essere l'emblema dell'intero lavoro. Una suite che si sviluppa attraverso stanze sonore caratterizzate dall'immaginazione sconfinata del leader, che riprende il filo del discorso dai tipici slanci visionari con i quali aveva segnato il sound della sua Cosmic Band, interagendo in maniera libera ed efficace con il resto del gruppo.
Completamente liberato: intervista a Gianluca Petrella
Non è stato semplice trovare un day-off nell'agenda di Gianluca Petrella per condurre questa intervista. È ormai una star del firmamento jazzistico, e come tale è impegnato in diversi contesti, progetti e iniziative artistiche di varia natura. Al trombonista pugliese abbiamo rivolto delle domande tese a far luce sui motivi di Slaves, il primo lavoro in studio realizzato con i suoi Tubolibre e incentrato sul concetto di schiavitù.
All About Jazz Italia: Gianluca, finalmente un attimo per l'intervista.
Gianluca Petrella: Stiamo promuovendo l'ultimo disco di Giovanni Guidi (We Don't Live Here Anymore, CamJazz, ndr), in cui sono ospite insieme a Michael Blake, Thomas Morgan e Gerard Cleaver; stiamo girando l'Italia in lungo e in largo a andiamo anche in Francia, quindi sono abbastanza impegnato in questo periodo.
AAJ: E da poco hai dato alle stampe Slaves con i Tubolibre (Mauro Ottolini; Gabrio Baldacci; Cristiano Calcagnile), un lavoro che si sviluppa intorno al concetto di schiavitù. Da dove nasce la necessità di tradurre in musica questo aspetto?
G.P.: In realtà mi capita molto spesso di registrare delle cose, poi man mano che registro e più sono in studio a lavorarci su mi viene l'idea di concettualizzare il discorso musicale che ho fatto. Sono associazioni tra concetti e musica che mi vengono con il tempo. In questo caso è venuta fuori l'idea dello schiavismo in generale, qualsiasi forma di schiavismo, che è partita da un concetto di blues, e quindi pensando a tutte le varie deportazioni. In seguito ho voluto ampliare il discorso ad altre varie forme di schiavismo. Qualsiasi forma. Per esempio in questo momento sono davanti a un computer, ci lavoro molto e quindi subentra una forma di schiavismo tecnologico: la dipendenza dal computer per portare avanti la mia vita. Ci sono poi altre forme che vanno un po' più sul sociale, come i bambini che vengono sfruttati, le donne che vengono sfruttate e illuse da personaggi malvagi, ma anche di uomini schiavi delle donne, basta dare un'occhiata alle news per accorgersi di queste storie che accadono nel quotidiano.
AAJ: Quando hai deciso la forma concettuale che avrebbe avuto il disco?
G.P.: Le idee musicali erano ben chiare prima di entrare in studio: la scelta dei brani, la forma che bisognava dare ad alcune improvvisazioni che si trovano all'interno del disco. Poi, giacché ho fatto un discorso ampio sul blues ho voluto associare il tutto e dare una linea comune a Slaves.
AAJ: È per questo che hai scelto di lavorare su due brani di bluesman come Skip James e Joe Williams?
G.P.: Sì, quelli li avevo già in cantiere per la registrazione, in più ho scritto altri brani e poi ci sono delle improvvisazioni.
AAJ: Questa è per Tubolibre la prima incisione, ma il gruppo esiste da diversi anni.
“Chi è schiavo della musica è una persona piena di sensazioni, una persona contenta di esserlo.”
G.P.: È un'idea di tre o quattro anni fa; siamo partiti senza pensarci più di tanto. Ricordo che iniziammo con un tour di dieci giorni, giusto per stare insieme e suonare, una cosa presa in maniera neanche troppo seria. Poi si è evoluta naturalmente e siamo riusciti a trovare una linea che potesse andar bene per noi quattro. Siamo musicisti con dei background differenti, ma riusciamo a coinvogliare in un unico punto tutti insieme. Quindi la storia del gruppo si è basata su un discorso molto vicino al blues, alla psichedelia con influenze elettroniche. La presenza di un susafono, che è molto vicino come idea e alle caratteristiche peculiari delle street band di New Orleans, può far pensare che questa band sia vicina a quelle sonorità, mentre invece gira intorno a quel sound, percorre una specie di tangenziale del blues per poi arrivare a tutto ciò che mettiamo sul piatto quando suoniamo, come strumenti elettronici, vari gingilli, chitarra elettrica e altro. In un primo momento chi si avvicina alla band può pensare che si tratti di una cosa un po' allegrotta, giocosa, mentre è un discorso musicale molto profondo.
AAJ: Qual è l'aspetto musicale maggiormente messo a fuoco in Slaves?
G.P.: Abbiamo lavorato molto sui suoni, ho chiesto ai miei musicisti di concentrarsi sulle dinamiche, sul dover creare qualche suono diverso e di non convenzionale, di pensare meno alla tecnica, al mostrare quanto uno è capace a suonare il proprio strumento. Ci siamo tolti dalla testa tutto questo ambito virtuosistico per ragionare più sul timbro e sulla profondità della musica.
AAJ: Come si è sviluppata la suite che dà il titolo all'album?
G.P.: Sono ventuno minuti di improvvisazione pura e semplice e messa lì così come è, la versione che ascolti è quella fatta in studio. Penso che sia una delle tracce improvvisate più belle che abbia mai fatto. È per questo che l'ho voluta mettere così sul disco, non andava toccato e tagliato nulla. Descrive la concentrazione che era nello studio. Eravamo concentrati e questa traccia traduce esattamente il livello di concentrazione che c'era in studio in quei giorni.
AAJ: Avete l'intenzione di portare il disco dal vivo?
G.P.: Sicuramente. Adesso ci stiamo lavorando su, stiamo cercando di capire, è difficile trovare spazio in base agli impegni che ognuno di noi ha; ma sicuramente il progetto verrà promosso e sicuramente andrà avanti.
AAJ: Alla musica potrebbe essere abbinata una parte visiva?
G.P.: Non ho intenzione di abbinare video a Tubolibre. Anche perché questa cosa dei video sta prendendo piede e c'è anche altra gente che lo fa. Sono uno che si complica sempre la vita, in qualsiasi cosa, quindi mi complico la vita anche nei progetti musicali che ho, e mi sforzo il più possibile di tirar fuori cose diverse e nuove. Diciamo che la storia dei video, per me, è un po' passata, anche se è molto bello fare musica con dei video, ma non saprei su cosa orientarmi per le immagini. Faccio già delle cose con dei video con il progetto "Exp and Tricks," dove vado a musicare da solo dei cortometraggi degli inizi del secolo scorso. Cortometraggi molto brevi, sperimentali, come i primi rallenty, i primi trucchetti, le prime cose a colori, chiaramente all'epoca non c'erano tutte le attrezzature di oggi, c'erano delle persone che coloravano fotogramma per fotogramma il cortometraggio.
AAJ: Esiste una forma di schiavitù nell'ambiente musicale?
G.P.: Per quanto mi riguarda non la vivo, anche perché a livello di produzioni mi sono concentrato per i fatti miei e quindi non devo essere schiavo più di nessuno. Non ho direttive da parte di nessuno, non ho intralci per quanto riguarda le idee e ora nessuno potrà più mettermi i bastoni tra le ruote tra quello che ho in testa, musicalmente parlando, e quello che vorrei produrre. Slaves è stato interamente prodotto da me per la Spacebone records, l'etichetta che ho creato. Mi sono liberato di molte cose che mi opprimevano, come fare a ogni costo un prodotto che potesse andar bene per il mercato, dover fare per forza una traccia del disco che potesse andar bene per le radio. Mi sono liberato della presenza del produttore che ti dà delle direttive. Mi sono completamente liberato di tuttò ciò.
AAJ: Personalmente parlando, di cosa ti senti schiavo?
G.P.: Mi sento schiavo del lavoro. Cioè, mi sento schiavo delle giornate che passano, delle giornate passate a pensare, è il dover lavorare inteso in termini economici per poter sopravvivere. Mi sento schiavo, ma sono ben felice di essere musica-dipendente, e questo ovviamente è un bene. È uno schiavismo musicale che mi tiene in piedi, ed è sinonimo di energia e di lucidità. Chi è schiavo della musica è una persona piena di sensazioni, una persona contenta di esserlo.
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