Con estrema lucidità intellettuale Fred Ho, nello scorso mese di aprile, ha lasciato la vita terrena all’età di cinquantasei anni. Anche scrittore e attivista sociale, il sassofonista di Palo Alto ha unito le linee caratteriali del jazz con gli elementi tradizionali della cultura afro-asiatica
«Questo tipo di tumore è un dono per me, perché nonostante le perdite fisiche sono dotato di enormi guadagni filosofici e creativi». Dice questo, e molto altro, Fred Ho nel documentario, ancora inedito nei circuiti cinematografici, Fred Ho’s Last Year (Trailer all’indirizzo: http://www.youtube.com/watch?v=P2L6Qs-szSA) diretto da Steven De Castro. Un’incredibile lucidità e presa di coscienza, in un momento difficile, invalicabile e di estremo dolore, affrontato con coraggio fin dal giorno in cui la malattia gli è stata diagnosticata, otto anni fa: «Il vecchio Fred Ho è morto, domani nasce il nuovo Fred Ho». Il sassofonista ora ci ha salutato per sempre, lo scorso 12 aprile, e ci lascia, oltre all’eredità artistica, un esempio di coraggio e caparbietà. Del resto la sua vita è stata da sempre caratterizzata da un modo di porsi spesso controcorrente e fuori dagli schemi convenzionali. Il giornalista e critico musicale Alexander Billet sottolinea la maniera che Fred Ho aveva di sfidare e mettere in discussione il capitalismo attraverso la sua arte: «Per esempio l’album “Big Red!” del 2011, realizzato a cavallo tra diverse estetiche, ci ricorda come Ho fosse in grado, a differenza di tanti suoi colleghi musicisti, di svincolarsi dal ristagno dell’arte contemporanea sotto il capitalismo, in un’epoca decisamente ostile a tali progetti. Anche se il cancro ha devastato il suo corpo e scheggiato via alla sua abilità come musicista, Ho ha continuato a combattere ed esplorare i modi per la sua arte». Impegnato nel sociale, compositore, scrittore e insegnante, Ho è stato soprattutto un pensatore dalla visione del mondo molto personale. Capace di suonare il sax baritono con estrema fluidità ed equilibrio, la sua musica è ricordata con buona sintesi nell’intervento del sassofonista, amico e studente, Benjamin Barson: «Fred rappresentava il centro spirituale del jazz. La sua era innovazione senza compromessi. Il suo suono poteva scuotere il tetto di una casa, le sue melodie erano sempre fuori dai classici registri del baritono; era sensibile, interculturale, e al tempo stesso ferocemente politico nel suo modo di esprimersi». Fred Ho, il cui nome di battesimo era Fred Wei-han Houn, si considerava un avanguardista popolare e aspirante rivoluzionario, e ha cercato di rimanere fuori dai circuiti mainstream per non intaccare la spontaneità della propria visione musicale. Attratto della realtà artistica della comunità afroamericana, da adolescente segue alcuni corsi d’istruzione tenuti da Max Roach e dalla poetessa Sonia Sanchez, iniziando l’utilizzo del sassofono da autodidatta. Il suo percorso di vita non è stato semplice: cresce in un ambiente famigliare caratterizzato dalla condotta violenta del padre e lascia il Corpo dei Marines nel 1975 dopo aver reagito a un insulto razzista di un ufficiale. Si laurea in sociologia all’Università di Harvard nel 1979 e nei primi anni Ottanta si trasferisce a New York City dove darà forma alla sua carriera come musicista.
“The Underground Railroad To My Heart” Fred Ho & The Afro-Asian Music Ensemble
Questo lavoro, edito dalla Soul Note nel 1994, è tra i più acclamati dalla critica in quanto rappresenta un esempio lampante di come Fred Ho riesce a ibridare, far proprie e restituire in maniera del tutto personale, diverse influenze stilistiche, cha variano dal jazz in senso stretto alle sonorità orientali. Scott Yanow, su All Music, ne parla in termini entusiastici: «Utilizza diversi tipi di ensemble con molti strumenti a disposizione: oltre al suo baritono c’è la classica formazione jazz, con fiati e ritmica, ma anche antichi strumenti cinesi, come il sona e l’erhu. In scaletta brani come Caravan di Duke Ellington e Strange Fruit Revisited, e molti originali dove Ho propone melodie della tradizione asiatica». La prestigiosa rivista DownBeat, nel numero di novembre 1994, assegna all’album quattro stelle e mezzo, ribadendo che lo stile di Fred Ho è: «Un genere a sé stante, una fusione pionieristica tra free jazz e musica tradizionale cinese».
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