venerdì 10 febbraio 2012

Vittorio Nocenzi (Banco): intervista

Quattro parole con Vittorio Nocenzi del Banco del Mutuo Soccorso, a pochi giorni dal tour del quarantennale, al quale parteciperanno anche Le Orme.
Tecnicamente parlando quali sono le difficoltà maggiori da affrontare sul palco per integrarvi con Le Orme? È necessario che ci sia un’organizzazione del suono molto seria. Ci sono delle sezioni separate del mixer di palco, come per il mixer di sala. Quelle di palco, per uel che riguarda la registrazione dei volumi e dell’equalizzazione di ogni strumento, sono gestite in maniera digitale, si richiamano degli schemi di equilibrio dei volumi e poi si riprongono a seconda del concerto, con la possibilità di adattarle di volta in volta a secondo dell’acustica del luogo. La difficoltà è sia tecnologica che logistica, gli spazi possono divenire più complessi da gestire, però essendoci una bella atmosfera di feeling e supportati da un service valido diventa tutto agibile.

Qual è stato il momento più bello a livello musicale della vostra carriera? È molto difficile dare una risposta onesta, vista una carriera così lunga fatta di percorsi affrontati e superati. Ci sono diversi momenti di soddisfazione. Certo che gli inizi sono sempre gli inizi, quindi quando agguanti il successo derivante non da una hit parade che strizza l’occhio alle canzonette, ma l’agguanti con della musica alla quale credi completamente è una soddisfazione profonda, sia a livello artistico che umano, il primo posto con “Il salvadanaio” è stato un momento magico, come del resto per “Darwin” e “Io sono nato libero”. Andando avanti con il tempo diventi sempre più smaliziato, le soddisfazioni diventano di altra natura, direi che un altro momento indimenticabile è stato il lavoro di “Terra”, il primo lavoro sinfonico, non con un’orchestra che accompagna una band rock, ma un lavoro scritto per un organico completo, per una creatura sia elettrica che acustica. Lavoro lungo e complesso, con i concerti indimenticabili fatti all’Arena di Verona. Un altro passaggio a me molto caro è stato quando abbiamo scoperto all’estero il seguito che la musica del Banco aveva. Non un seguito scontato tra gli emigranti italiani, ma fra i giapponesi, fra i messicani, gli statunitensi. Internet, dagli anni Novanta in poi, ha creato per il progressive una realtà molto ampia e molto attenta. A Tokyo, durante la prima tournée tra le tante che abbiamo fatto in Giappone, trovai l’intera discografia del Banco. Ho trovato lì una grande competenza, conoscevano benissimo i nostri brani, anche quelli da diciotto minuti, conoscevano il nostro repertorio a memoria. Non dimenticherei poi i successi che alcuni nostri brani, con la struttura di canzone, hanno avuto, come paolo pa del 1980, che affontava un tema scottante come l’omosessualità rinnegata nelle perifrei metropolitane, o Moby dick, con il suo celebrare il sogno, l’utopia, così irrinunciabile per una persona. Situazioni che ci hanno portato una grande crescita artistica.

Se potessi riscrivere qualche pagina del vostra storia, dove metteresti mano? Non ho dubbi: l’album E via, che abbiamo fatto per il mercato europeo nell’85, credo che sia il più brutto, non tanto per scrittura compositiva, ma come realizzazione, perché nacque esclusivamente per il mercato europeo ma poi la casa discografica abortì il progetto e ci trovammo, dopo aver fatto dei concerti in Olanda, in Belgio, in Francia, ci trovammo questo prodotto sul mercato italiano, ed era assolutamente in distonia.

Quante probabilità ci sono di ascoltare a breve un nuovo album di inediti? È già uscito il primo dei due libri in programma, “Sguardi dall’estremo occidente” che è una mia conversazione sulla musica che ho composto in questi quaranta anni, soprattutto per il Banco, prima di giugno poi uscirà la nostra prima biografia ufficiale.

Qual è il motivo, il filo conduttore che vi ha tenuto legati per tutti questi anni? Credo un rispetto reciproco che è stato più forte dei disaccordi, delle divergenze di opinione, che inevitabilmente ci sono, anche tra persone legate profondamente. La serietà che abbiamo cercato di dare al nostro modo di lavorare è stato un cemento molto forte. Nella realtà siamo così diversi, ma che noia mortale sarebbe pensarla sempre nello stesso verso!

Un musicista come te, venuto su negli anni Settanta, come vede e vive le trasformazioni che la materia musicale ha subito? Internet è una cosa fantastica, un’opportunità enorme che la musica, la cultura e noi tutti abbiamo. Certo è che va sempre utilizzata al meglio anziché nel modo banale che a volte vedo essere preferito da molti. Direi che se hai una Ferrari non ci fai il giro del palazzo per andare a comprare il pesce, con una Ferrari ci fai il chilomentro lanciato e sfidi il record, almeno questo è il mio pensiero. Internet va utilizzato per conoscere, apprendere, coltivare le diversità, per avere memoria, questa è una cosa fondamentale, per celebrare il passato e per scegliere e progettare il proprio futuro. In giro c’è tanta musica senza significato e senza valore, perché è aumentata la quantità e per come ogni cosa questo è inversamente proporzionale alla qualità. Certo, ci sono grandi talenti, grandi proposte, solo che si confondono in questo oceano di offerta. Starei alla lontana da un eccesso di consumismo miope perché confonde le idee e uccide le emozioni . direi ai giovani artisti di armarsi di un coraggio da minatori, di mettersi l’elmetto e proseguire il proprio percorso senza farsi scoraggiare. Di sicuro è più difficle oggi che quarantanni fa, paradossalmente è così, perché i media sono diventati sempre più invasivi e puntano – con poche eccezioni – alla quantità, detteta dalle necessità di mercato. Poi ci sono realtà come SUONO che si dedicano a una nicchia di qualità, nei quali si respira la scelta, si respira la selezione, non si può sempre vivere della banalità del luogo comune, sarebbe la morte dell’arte, del talento, della creatività.

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