Perché hai scelto di lavorare sul materiale di Christian Wolff e perché hai voluto Giancarlo Schiaffini come interprete?
Sergio Armaroli: Christian Wolff rappresenta un ideale punto di congiunzione tra la ricerca musicale inaugurata da John Cage, di cui è stato allievo, e l’improvvisazione intesa come traduzione sonora di un pensiero compositivo immanente, e urgente. Wolff elabora un materiale che deve essere condiviso dagli interpreti, compreso e assimilato nell’atto stesso dell’esecuzione, con tutte le “imperfezioni” che questo comporta. Giancarlo Schiaffini rappresenta un raro esempio di “pensiero in atto” che diviene suono, come direbbe Alipio Carvalho Neto; non posso, in questo senso dire di “aver scelto un interprete”, ma una volontà operante molto gentile, acuta e attenta. Mi spiego: solo attraverso alcuni “incontri preparatori”, fatti di qualche concerto insieme, poche parole, sguardi e brevissimi confronti, si è concretizzato, attorno a un materiale minimo come quello di Wolff, la possibilità di un dialogo e di un’esperienza per “realizzarne”, come dice Giancarlo, “una versione para-jazzistica”. Solo successivamente, come naturale conseguenza di ciò, abbiamo deciso insieme di lavorare sul materiale di sua composizione per improvvisatori in una sorta di “esercizio dialettico” dell’intelligenza.
Qual è la prima cosa che hai pensato quando ti è stato proposto questo lavoro?
Giancarlo Schiaffini: La prima considerazione positiva riguardo a questa proposta è legata alla persona di Sergio Armaroli che mi ha convito senza problemi. Con Sergio ho collaborato in alcuni concerti e in quelle occasioni ci siamo confrontati sul nostro lavoro musicale trovando una grande coincidenza di idee e di progettualità. Collaborare su Christian Wolff in una ottica “para-jazzistica” mi è sembrata un’idea molto stimolante. Avevo già in passato lavorato su alcune partiture di Wolff e ne avevo apprezzato l’intelligenza, la grande apertura e la possibilità di inserire l’improvvisazione in quei contesti. L’idea di Sergio di usare Microexercises, che, confesso, non conoscevo, mi è parsa molto adatta per una lettura da parte di musicisti che avessero frequentato il jazz, qualunque possa essere il significato di questa etichetta al giorno d’oggi. La mia opinione è che il jazz abbia diminuito il suo potere trainante già dalla fine degli anni Sessanta; ormai è praticamente diventato una sorta di accademia, per cui il variarne le prospettive rappresenta un processo decisamente rivitalizzante. Il fatto poi di lavorarci con Sergio e con Marcello Testa e Nicola Stranieri è stato un motivo ulteriore per affrontare questa impresa.
Quale è stato il rischio maggiore nel rileggere questo repertorio?
Sergio Armaroli: Il rischio, se di rischio si può parlare, è quello di trovarsi in una “terra di nessuno” ovvero in un non-luogo musicale, intendo questo da un punto di vista puramente istituzionale e di riconoscibilità critica. Il jazz oggi, o quello che viene identificato e nominato, come “jazz”, soprattutto in Italia, sembra, a mio modesto parere, molto conservatore e chiuso in un’idea di linguaggio museificato e privo di vitalità e di coraggio; dall’altra parte, la musica contemporanea di matrice euro-colta o quello che ne rimane, pare incapace di uscire dalle strette di un accademismo molto rigido, nonostante le buone intenzioni; allora, affrontare, da una parte, un autore come Wolff che si pone il problema del contesto reale, e di un fare musica insieme liberato, e, dall’altra, lavorare, come in un processo di affinità elettiva e di simpatia, sulla musica di Giancarlo Schiaffini pone in questione il fare musica al di fuori di schemi e di definizioni di comodo; questo processo può portare a uno spaesamento e a una “perdita del centro” anche per l’ascoltatore; ripeto: non è una sfida, ma, semmai, una necessità. Nella necessità non c’è rischio perché si segue un’urgenza e dunque non può che essere un incontro felice. Con Giancarlo mi impegno a non chiamarlo jazz e aggiungo: nella tragicommedia dell’ascolto e alla ricerca del suono significante…
Uno dei due CD è basato su tue composizioni. Ce ne vuoi parlare?
Giancarlo Schiaffini: Sergio mi ha chiesto di portare qualche brano nella sessione di registrazione che potesse inserirsi nel discorso generale. Ho acconsentito molto volentieri e ho scelto alcune composizioni pensate per un gruppo di improvvisatori. Questi brani, più che sulle note scritte, che comunque compaiono con una certa parsimonia, si basano sulle relazioni fra gli esecutori, su indicazioni di atmosfere musicali, e su micro-temi, e qui c’è qualche coerenza con l’opera di Wolff, da sviluppare con grande libertà. In definitiva si tratta di strutture, a volte stabilite e a volte risultanti dall’esecuzione, che suggeriscono soluzioni e consentono agli esecutori di usare la loro inventiva per creare un discorso musicale condiviso.
Come si pone questo lavoro nel tuo percorso di ricerca artistica?
Sergio Armaroli: Personalmente devo dichiarare un debito di riconoscenza nei confronti di Giancarlo Schiaffini e di quello che rappresenta per la musica; un musicista pensante che rappresenta un modello di metodo e di pratica. Voglio dire: il vero virtuosismo è quello della mente e dei processi che siamo in grado di attivare attraverso il suono, e la qualità dei rapporti che siamo in grado di creare. È un processo umano, di dialogo e di ascolto. Se noi, nell’oggi, soffriamo di “autismo” è perché abbiamo perso memoria di un fare musica che in Giancarlo si materializza, anche, nella sua presenza. E questo mi rassicura e mi aiuta nel mio percorso di ricerca artistica che è molteplice, frammentato, come un “work in progress” intellettuale in maniera irregolare e non sistematica lasciando sempre aperte attese e prospettive. In questo viaggio sono accompagnato da due straordinari musicisti come Nicola Stranieri, batterista sensibilissimo e attento alle minime derive, e Marcello Testa al contrabbasso, per me sicuro approdo. Con loro, e insieme al sassofonista Claudio Guida, ho creato l’Axis Quartet con il quale ho cercato di circumnavigare il continente del jazz e la sua lingua che è meticcia ed euro-africana. Invece questo mio ultimo lavoro, o meglio, questo “esercizio”, rappresenta un passaggio al futuro, in quanto, senza problemi di carattere “filologico” la pratica degli “esercizi” è più sicura e libera.
Hai progetti per il futuro?
Giancarlo Schiaffini: Sono sempre tanti, e molti più di quello che si riesce a realizzare. Comunque sarebbe, sarà, senz’altro interessante e augurabile continuare la collaborazione con Sergio e con i suoi sodali. Continuerò comunque a progettare a zig-zag come ho sempre fatto, usando l’improvvisazione in senso strutturale, anche con l'uso di immagini, per raccontare storie, l'elettronica come strumento aggiuntivo, e quanto mi interesserà al momento.
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