Cosa ti lega alla figura di Bill Evans? Sono sempre stato accostato a un certo tipo di pianismo vicino a Herbie Hancock, Oscar Peterson, Bud Powell e altri legati alla tradizione afroamericana. In realtà Bill Evans è stato un musicista fondamentale per il mio sviluppo e la mia maturazione come pianista. Suonare il suo repertorio è una cosa rischiosa, un po’ come avvicinarsi al mondo di Monk. Lui non è un seguace di uno stile, lui ha creato uno stile. È difficile renderlo senza correre il rischio di copiarlo, e forse per questo motivo l’ho sempre lasciato da parte. Oggi però, almeno spero, credo di essere in grado di proporre un qualcosa di interessante. Mi piaceva misurarmi con un qualcosa che forse anni fa non comprendevo appieno o per la quale non mi sentivo pronto. È un passo importante che fa parte della mia crescita.
Qual è l’idea alla base di questo progetto in trio con Eddie Gomez e Joe LaBarbera? Alla base di tutto non c’è un tributo a Bill Evans, ma un progetto musicale che si ispira a Bill Evans. C’è la voglia di celebrare un’eredità, che lui ha lasciato in tutti noi. È una sorta di ringraziamento, per le emozioni che ci ha dato. La sua arte è ancora viva e la sua freschezza nel suonare è ancora attualissima.
La scaletta di “Kind of Bill” cosa prevede? Oltre ai brani di Evans suoniamo anche standard, sempre ispirati alle sue versioni, che dunque assumono mood particolari, e alcuni originali, come Kind of Bill che poi dà il titolo al progetto.
Pensi che questo progetto diventerà anche un album? L’idea è quella di fare le cose in maniera spontanea. Nel frattempo stiamo registrando alcune serate, poi vedremo.
Sia Eddie Gomez sia Joe LaBarbera hanno suonato in trio con Bill Evans, in periodi diversi. Che effetto ti fa condividere il palco con loro? Mettere loro due insieme è stato fantastico. È bello ascoltarli suonare, sul palco li ammiro, sono uno spettacolo. Questo è un progetto anche dedicato a loro. Eddie e Joe hanno una grande personalità e hanno contribuito al sound del trio di Bill Evans, il quale non sceglieva i musicisti a caso, ma andava a prendere quelli con determinate caratteristiche, perché aveva bisogno di musicisti che capissero la sua estetica, il suo linguaggio. Basti pensare all’intesa con Scott LaFaro, e al loro legame umano. Eddie ha lasciato un’impronta, è un innovatore, è un discepolo del messaggio di Scott LaFaro. Ha sviluppato l’intesa con lo strumento quanto Scott LaFaro. Nel trio di Bill Evans è stato fondamentale e ha dato a Evans un qualcosa in più. Joe suona la batteria in maniera melodica, sa essere sia delicato sia autorevole. Conosce la musica in maniera profonda, a seconda dell’accordo che si suona decide il piatto da suonare o usa le spazzole.
In questi giorni ti hanno raccontato qualche aneddoto legato alle loro esperienze con Evans? Sono rapporti molto intimi e ne parlano solo quando si sentono di parlarne. Sono legami particolari. L’empatia è difficile da descrivere. Tra le cose che sono trapelate mi dicono di una persona buona e sensibile, che amava i cartoni animati e il baseball, che aveva attenzione per i bambini, si ricordava dei compleanni dei suoi amici, e questi suoi aspetti li riversava in musica. Era molto affidabile, malgrado i suoi noti problemi legati alla tossicodipendenza. Inoltre, andava a sentire gli altri pianisti, come Monk e Oscar Peterson con il quale avrebbe dovuto fare un disco per doppio pianoforte. Era curioso. Non era introverso, aveva molti interessi. È stato un genio, un musicista che ha voltato pagina, e questo è universalmente riconosciuto.
A fine tour, quel è un complimento che ti piacerebbe ricevere? In realtà il complimento me lo hanno fatto ieri sera Eddie e Joe dopo il concerto dicendomi: «Hai capito lo spirito, hai suonato con il cuore». Quando due musicisti che hanno diviso il palco con un gigante come Bill Evans ti dicono di avere imparato la lezione vuol dire molto, è una cosa che mi dà fiducia e mi piace moltissimo.
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