Il Perigeo, la didattica, i concerti con varie formazioni, l’approccio al piano solo, l’amore artistico per Thelonious Monk, l’ideazione di diversi progetti: parlare con Franco D’Andrea è come andare sulla giostra del tempo e dei concetti, tra mille emozioni e suggestioni particolari. Snocciola idee con sapienza e convizione, mantenendo sempre un profilo di garbatezza e autentica modestia. Le sue sono caratteristiche tipiche di un grande uomo, che in questo caso coincidono con quelle di un musicista eccelso.
Di recente hai pubblicato Today, un disco di piano solo che nella tua carriera mancava da alcuni anni. Sì, ci voleva. Era nell’aria anche perché era da molto tempo che non mi esprimevo in questa forma intima e particolare (dall’album Live At Radio Popolare del 2006, NdR). Si tratta di un lavoro registrato in studio, nel quale ho dato libero sfogo all’esplorazione. È un lavoro dove si rintracciano delle cose provenienti dal passato, dalle mie passioni musicali, ma istintivamente proiettato nel futuro. Amo mettere nei miei dischi un qualcosa che venga dalla storia del jazz, dai repertori di quei musicisti che mi hanno affascinato e colpito durante il mio cammino; e sono convinto che si possa costruire qualcosa di nuovo attingendo dai colori del passato, anche se non abbraccio i musicisti nella loro totalità, ne prendo spunto da determinati periodi, fatta eccezione per Thelonious Monk che rimane probabilmente il mio musicista di riferimento.
Non avevi nulla di pronto prima della resistrazione? I brani contenuti in Today sono quasi tutti frutto di un’improvvisazione libera. Ho sempre avuto l’idea che anche nell’espressione in solo bisognava avere dei pezzi del mosaiaco già pronti cui attaccare le altre tessere, come per esempio una semplice struttura ritmica, oppure un certo brano al quale sono affezionato o che mi stimola. In questo caso sono andato in studio dopo che per un anno avevo lavorato alle idee per l’album, ma alla fine non ho usato niente di cose precomposte e ho utilizzato solo quello che mi arrivava in testa in quel momento. I pezzi sono improvvistati in maniera totale. Non sapevo in che direzione mi stavo muovendo e ho fabbricato la forma di Today in tempo reale.
Hai nominato Monk. È appena uscito l’album Monk And The Machine per la Parco della Musica Records. Sì, è un lavoro dedicato alla figura di Monk, che è al centro di tutto il discorso espressivo. Prima o poi dovevo fare qualcosa del genere. A lui ho già dedicato delle cose: Plays Monk in solo nel 2003 e Our Monk in duo con Phil Woods nel 1994. Mi mancava un lavoro più complesso e per certi versi più orchestrale. Nell’occasione il sestetto (Andrea Ayassot, Daniele D’Agaro, Mauro Ottolini, Aldo Mella e Zeno De Rossi, NdR) si è rivelato come soluzione ideale e ha funzionato molto bene. La voglia di realizzare questo lavoro c’era già da qualche tempo, ed era nata in occasione di un concerto tenuto Vicenza, dove abbiamo suonato il repertorio di Monk. Da lì ho inizito a fare delle cose attinenti alla sua musica.
Come hai costruito la scaletta? Nel disco ci sono pezzi suoi, ma anche altri che sono dedicati o prendono spunto da sue caratteristiche, come l’uso dell’intervallo di seconda maggiore, certi riff, alcune frasi particolari, le scale esatonali. Abbiamo fatto dei pezzi improvvisati basati su queste peculiarità. Poi ci sono brani originali scritti da me che possono in qualche maniera avere un senso in questo contesto. Lui era un personaggio che aveva radici antiche, rintracciabili per esempio nel blues, ma poi si proiettava nel tempo in un futuro indeterminato. Molti ne restano scolvolti ancora oggi, perché aveva la vista lunga, era futuribile. È stato un po’ come Duke Ellington, che continuò sempre a inventare e scoprire cose nuove. In questo però Monk è avanti come nessun altro. La sua musica va avanti e indietro nel tempo e attinge da colori provenienti da diverse epoche. Il nostro disco vuole trasmettere questa idea.
Ti sei avvicinato a lui anche se il pianoforte non è stato il tuo primo amore. Vero. Per un bel po’ di tempo, anche quando già suonavo il piano, continuavo a pensare agli strumenti a fiato. All’inizio ero innamorato del jazz tradizionale, di musicisti come Louis Armstrong. Ho provato a suonare il sax, la tromba e il clarinetto, e il mio obiettivo era quello di suonare il jazz, una musica che mi aveva affascinato totalmente e che era legata strettamente agli strumenti a fiato. Anche da pianista mi sono portato dietro questo tipo di esperienza. A un certo punto il piano è stato un passaggio obbligato, perché iniziai a suonarlo per capire come funzionava l’armonia. Il pianoforte era in già casa, per casualità. Sono stato per molto tempo un “pianista prestato” come mentalità. Ancora oggi ho sempre la voglia di avere uno strumentista a fiato vicino a me. Da Tino Tracanna a Mauro Ottolini o Andrea Ayassot e Daniele D’Agaro, l’idea mi piace sempre, avere qualcuno che soffia in questi strumenti è magnifico, ci sono troppo affezzionato, sono strumenti con cui bisogna essere in simbiosi per far uscire un buon suono, mentre il piano è più mediato, c’è un meccansimo tra strumento e artista.
Per un periodo, quando eri nel Perigfeo, sei anche passato allo strumento elettrico. Sì, anche perché quel tipo di musica, come ampiamente dimostrato da Miles Davis, doveva adottare il colore, del resto molto interessante, del piano elettrico. L’ascolto di album come Bitches Brew mi avvicinarono a questo strumento. Il Perigeo nasce da un’idea di Giovanni Tommaso, il quale pensò subito a me per svolgere il ruolo del pianista. Era una situazione molto particolare dal punto di vista dell’insieme timbrico, e basata sull’elettronica. Adoperavo molti effetti per creare qualche forte variante sul suono del Fender Rhodes. Uscivano fuori suoni di vario tipo grazie a dei dispositivi che lo rendevano ora aggressivo, poi spaziale o più liquido. Ricordo con piacere quel periodo, molto creativo e volto e all’ispirazione timbrica.
Perché il progetto è poi terminato? Eravamo dei musicisti creativi, e come tali, arrivati a un certo punto del percorso, avevamo fatto tutto quello che dovevamo fare. Il fatto di avere successo o meno non era importante. Volevamo tirare fuori il massimo dalla musica e dopo cinque dischi non ci vedevamo molte cose oltre. Il ciclo era stato compiuto. Se avessimo badato solo ai soldi, saremmo andati avanti per altri venti anni. Ma noi eravamo un po’ particolari.
È passato molto tempo da quei giorni, oggi però continui a toglierti molte soddisfazioni, come i concerti dello scorso settembre a Milano e Torino dove ti è stata data “carta bianca”. Di cosa si è trattato? Per la prima volta della mia vita un’associazione di musica classica come Settembre Musica, che dedica anche spazio al jazz, mi ha dato “carta bianca” per fare quello che volevo nell’arco di due giorni. Ho così potuto realizzare il punto della situazione della mia vita musicale, e ho fatto dei concerti con diverse formazioni. Il progetto l’ho chiamato Traditions And Clusters (come l’album uscito per la El Gallo Rojo nel 2012 e premiato con il Top Jazz, NdR) e oltre ai musicisti del sestetto ho voluto con me due ospiti d’eccezione, con i quali ho di recente avuto modo di dividere alcune esperienze sul palco: Han Bennink e Dave Douglas. Mi fido di loro due in maniera assoluta e li considero nella cerchia dei miei musicisti preferiti attualmente. Nel pomeriggio l’ottetto si è scisso in varie situazioni, dal solo al duo e poi con gli altri per un programma esteso. Inoltre, ho suonato in duo con Douglas, e abbiamo fatto delle cose in quartetto. Questa formula è molto usata in Francia, dove succede spesso che venga data la possibilità a un musicista, anche non molto conosciuto di esprimersi nella totalità della sua esperienza artistica, mentre in Italia avviene di rado e solo con personaggi affermati. È stata una grande esperienza e una bella gratificazione.
Per te le gratificazioni arrivano anche dall’insegnamento. Sei dell’idea che le nozioni eccessive di cui dispongono oggi i giovani musicisti stanno portando verso un appiattimento della fantasia espressiva? Questo è il pericolo di ogni tipo di didattica. Dipende solo da chi è chiamato a insegnare, non è certo colpa degli allievi. Gli insegnanti sono quelli che ne sanno di più e dovrebbero capire certe cose, soprattutto nel campo della creatività, e non solo nella musica. La creatività è alla base di tutto ciò che di bello ha creato l’uomo. Bisogna essere disponibili a sperimentare e rischiare. Come insegnanti dobbiamo saper sviluppare le forze personali del singolo allievo. Capire quali sono i suoi punti deboli e insistere nel far emergere le qualità migliori. In questo modo daremo un servizio all’allievo basandoci sulla nostra esperienza. Solo così l’insegnamento ha un senso compiuto.
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