Giornalista, critico
musicale, docente universitario, tour manager, produttore e altro ancora,
Ashley Kahn ha presentato lo scorso 21 ottobre, presso la Casa del Jazz di
Roma, il suo recente libro edito da Il Saggiatore, dal titolo “Il rumore
dell’anima – scrivere di jazz, rock, blues”, una raccolta di interviste e racconti
scelti nel suo quarantennio di giornalismo musicale. Kahn, con competenza e sottile ironia, ha risposto alle domande del giornalista Duccio Pasqua e di
alcuni spettatori presenti. Di seguito un sunto delle sue dichiarazioni
Il mondo della musica mi affascina da sempre. Ho voluto entrarci
e conoscerlo in ogni suo aspetto, dalla comunità dei musicisti all’industria
discografica. Se c’è un filo tracciabile in buona parte della mia scrittura è
il modo in cui ho finito di appassionarmi all’idea di spiegare la musica,
facendolo attraverso le sue storie. Ho una filosofia alquanto essenziale:
scrivi bene, scrivi in maniera chiara, non celare l’entusiasmo e riconduci
sempre il lettore alla musica.
Troppo spesso trovo la critica musicale altamente
autoreferenziale, compiaciuta della sua stessa arguzia e creatività. Scrivere
veramente di musica deve avere al suo centro la musica, non la scrittura. Dopo
tanti anni ancora oggi mi immergo nella musica, cerco il massimo delle informazioni
prima di poterne scrivere. Analizzo in maniera compiuta ogni dettaglio per
poter capire e spiegare un’opera musicale. Quando ho iniziato Internet non
esisteva, e la sfida di oggi è quella di esprimersi in spazi brevi, esprimersi
attraverso un’estrema brevità di giudizio. Bisogna aprire le “scatole” della
musica, incuriosire i fan e spingerli a darci un’occhiata dentro.
Il compito del giornalista musicale è quello di far intravedere
qualcosa, non completare l’analisi per chi legge, ma dare uno strumento per
conoscere maggiormente il soggetto di cui si parla. Il compito è assolto quando
il lettore, una volta finito di leggere, mette da parte il testo scritto e va a
cercarsi la musica di cui si parla. Questo è il compito da svolgere. Se vuoi
raccontare una storia devi conoscerla. Non c’è altro sistema. Bisogna dannarsi
per raggiungere chi può darti informazioni basilari, come ho fatto quando ho
scritto le note di copertina di “Offering: Live At Temple University” il live
album postumo di John Coltrane edito dalla Resononce Records nel 2014 (note che fecero ottenere a Kahn un Grammy Award, NdR). Ho parlato con i musicisti
coinvolti in quella registrazione e con Michael Brecker, che nel 1966 era tra
il pubblico di quello storico concerto. Inoltre, è importante analizzare il
materiale video, le immagini, capire quale può essere la chiave di lettura
della storia, il nucleo di interesse per il lettore. Altro aspetto fondamentale
è capire quali sono le domande da fare agli interlocutori per arrivare al
nocciolo della questione.
Nel mondo della musica c’è sempre stato bisogno di riferimenti,
di etichette capaci di definire i generi, anche per far orientare l’ascoltatore
in un insieme così caotico. Le categorie però non devono limitarci. Oggi le
cose più interessanti si ascoltano a cavallo tra i generi, negli interstizi che
separano jazz ed elettronica, jazz e hip hop e via dicendo. Lì è il futuro, e
lì che si trovano le cose più interessanti. Ne è esempio un disco come “Balckstar”
di David Bowie, che ospita musicisti come Donny McCaslin o Mark Guiliana.
Se c’è qualcosa che non mi piace preferisco non parlarne. In
ogni decade ci siamo chiesti che fine abbia fatto la buona musica. È una
costante. La difficoltà è che per giudicare la musica dobbiamo liberarci dei
criteri e delle convinzioni che ci siamo creati nel passato. Molti critici
soffrono questa situazione, perché non riescono ad applicare una visione
imparziale alle nuove proposte, rimanendo ancorati ad assunti del passato. È
importante non creare sfide, non serve, bisogna essere capaci a unire le
passioni, fare confronti tra artisti e schierarsi per uno o per l’altro non
serve. Il mio approccio è questo, non mi precludo niente. Bisogna essere
attenti e pronti all’accogliere il nuovo.
Ai miei studenti dico di amare ogni genere musicale, non
schierarsi dalla parte di un solo musicista disdegnando gli altri, sia
contemporanei sia di altre epoche. Se uno studente ama un artista gli consiglio
di approfondirne la conoscenza, capire per quale motivo fa quella musica, cosa
l’ha portato a esprimersi in un determinato modo, per poi arrivare alle sue
radici. Solo così lo studente riuscirà a farsi la muscolatura adatta ad
affrontare qualsiasi altro genere o artista. La musica che ci segna è quella
che ascoltiamo da giovani, fino a ventiquattro anni. Questa però deve essere la
nostra base e bisogna imparare ad aprirsi e ad accettare quello che verrà in
seguito. Non avere preconcetti, non essere legati a degli assunti. La musica ha
un potere incredibile. Può cambiare una vita, la può salvare. Così è stato
anche per me.
Nessun commento:
Posta un commento