Adriano Mazzoletti (classe 1935) ha dedicato una vita al jazz, come giornalista, produttore, conduttore radiofonico e scrittore. Negli ultimi anni ha pubblicato per Edizioni EDT i due monumentali volumi Il Jazz in Italia: il primo nel 2004, “Dalle origini alle grandi orchestre”; il secondo nel 2008, “Dallo Swing agli anni Sessanta”. È in programma il terzo volume, per completare uno sforzo editoriale difficilmente superabile, che ha messo un ordine decisivo alla storia del jazz italiano.
Le più importanti storie del jazz nel Mondo ignorano, o sottovalutano, il jazz italiano. Perché?
È una ragione molto lunga da spiegare. In passato il jazz italiano, dal dopoguerra agli anni Settanta, non è mai stato aiutato dai promoter, dai critici e dalle persone che eventualmente dovevano sottolineare l’evolversi del jazz. Se per esempio prendiamo la rivista francese Jazz Hot e la confrontiamo con Musica Jazz, che al tempo era l’unica rivista che esisteva in Italia, possiamo notare che ogni due o tre uscite della rivista francese c’erano dei musicisti della loro nazionalità, mentre da noi era rarissimo trovare in copertina un musicista italiano. Questo avveniva perché quelli che facevano Musica Jazz erano dei fondamentalisti; per loro il jazz era americano e non si scostavano da questa idea. In parte avevano anche ragione, però al di là del jazz americano ci sono stati grandi musicisti, che avevano il loro grande valore. Anche per questo motivo il jazz italiano non ha mai goduto di considerazione all’estero, non ha mai catturato l’attenzione delle riviste e della critica in genere fuori dai confini nazionali. Sono di fatto rarissimi i casi di musicisti italiani che hanno passato le Alpi fino agli anni Settanta.
Nel corso del tempo alcune cose sono cambiate.
Sì, e un po’ lo si deve a un qualcosa che in un certo senso mi riguarda. A metà degli anni Sessanta c’è stata da parte dell’Unione Europea Radiodiffusione una sorta di organizzazione molto importante: tutte le radio pubbliche d’Europa si sono messe d’accordo e hanno varato un’iniziativa per la musica jazz, con uno scambio continuo di registrazioni e di musicisti. Questo ha fatto sì che i musicisti italiani hanno incominciato a essere apprezzati all’estero. Uno su tutti è stato Gianluigi Trovesi. Quando l’ho mandato a un concerto in Austria, tutti i colleghi presenti rimasero a bocca aperta, perché non si aspettavano che in Italia ci fosse un musicista così interessante. In seguito fu invitato spesso all’estero, e la stessa cosa accadde a Enrico Rava e Giovanni Tommaso. Dopodiché le cose si sono evolute e con il tempo il jazz italiano – e non lo dico io, ma molti colleghi stranieri – nella sua globalità è il jazz più importante nel Mondo.
Quanto è stato difficile mettere insieme, e in maniera ordinata, la storia del jazz italiano vista la scarsità di materiale a disposizione?
È stato il lavoro di una vita. Quando ero molto giovane mi trovavo a Perugia, ero uno studente appassionato di jazz, al tempo c’erano musicisti come Bill Coleman e Chet Baker che ogni tanto venivano a suonare in Italia. In quel periodo ho conosciuto un musicista molto anziano che suonava sax e clarinetto, che mi raccontava che in Italia si suonava del jazz negli anni Venti. La cosa mi incuriosì molto, perché a quei tempi si sapeva poco o nulla sulla nascita del jazz italiano. Da lì è partita la mia ricerca. Il jazz in quegli anni era una musica che non si suonava in forma di concerto, ma in sala da ballo. Di seguito sono nati i primi jazz club, come quello di Torino, dove si svolgeva un’attività di tipo jazzistico. Le mie ricerche sono durate tantissimo, ho intervistato centinaia di musicisti, perché dovevo mettere insieme una grande quantità d’informazioni. All’inizio furono pubblicate su libro-disco dalla Ricordi, poi in un piccolo libro per l’editore Laterza e poi finalmente ho trovato la EDT che ha creduto molto in questo progetto pubblicando due volumi di circa duemila pagine. Ho fatto un lavoro certosino, anche perché ho dovuto verificare tutte le informazioni che i musicisti mi davano, quindi ci sono state tantissime ricerche incrociate.
C’è in cantiere il terzo volume?
Sì, lo sto realizzando. Tratterà del jazz in Italia dagli anni Sessanta ai giorni nostri, con particolare attenzione all’attività dell’UER, perché esistono delle registrazioni negli archivi delle radio che non sono mai state pubblicate, ma che sono d’importanza straordinaria. Ormai di jazz in radio se ne fa veramente poco, mentre prima c’era una presenza massiccia di questa musica.
Il jazz italiano deve qualcosa a chi descrive e analizza quasta musica?
Sì, sia in negativo che in positivo. Di recente ci sono stati dei critici che hanno detto cose importanti, soprattutto per far conoscere meglio i nostri musicisti. Un collega della radio danese mi diceva che il jazz italiano ha un insieme di musicisti di altissimo livello. Fino a venti anni fa era impensabile che un musicista italiano incidesse dischi in America, mentre oggi questo avviene grazie anche alla diffusione e alla visibilità data dalla critica. Tra l’altro in America oggi c’è un problema: in giro per le grandi città non c’è più un certo tipo di jazz, non c’è più il senso del jazz, una musica che più di tanto non rende dal punto di vista economico, quindi i giovani si spostano su altri stili.
Com’è cambiata la critica musicale in Italia nel corso degli anni?
Negli anni Trenta c’erano tre persone, musicisti e musicologi, che erano Livio Cerri, Roberto Nicolosi ed Ezio Levi. Avevano una capacità importante di capire e di rendersi conto di quello che stava succedendo e avevavo intuito delle cose molto interessanti. Nicolosi era un musicista professionista, Cerri era un musicista, ma faceva l’odontoiatra, mentre Ezio Levi – per via del suo nome – dovette lasciare l’Italia per le questioni delle leggi razziali. Poi c’erano gli altri, che non erano musicisti e avevavno un’idea del jazz abbastanza particolare, molti facevano dei parallelismi con la storia, la letteratura, la filosofia. Una vera critica di jazz seria, non c’era. Poi negli anni sono venute alla luce personalità importanti, come Marcello Piras. Lui è un musicologo straordinario, di grande talento, una persona molto intelligente per la capacità che ha di mettere insieme le notizie. Ce ne sono anche altri come Maurizio Franco o Stefano Zenni, un allievo di Piras. Queste persone hanno cambiato la critica jazz. Poi c’è anche la categoria del giornalista, colui che scrive di jazz, ma si occupa anche di musica in generale e che di solito scrive sui quotidiani.
Quali sono le differenze sostanziali?
Tra il critico musicista e il critico non musicista e non musicologo c’è un’enorme differenza. Il primo scende in profondità e nel tempo questi personaggi hanno detto delle cose molto importanti per il jazz italiano di questi ultimi anni. Gli altri fanno la cronaca. La critica italiana oggi è interessante per l’aspetto musicologico, mentre dovrebbe tentare di mettere maggiormente a fuoco quello che oggi è il jazz. Il pianista Dado Moroni, che vive negli Stati Uniti, mi ha detto che oggi non si capisce bene cosa sia il jazz. Dunque, perché la critica non comincia a fare un’estetica del jazz attuale? Questo sarebbe importantissimo. Il jazz in passato aveva determinate regole che riguardavano la modalità di esecuzione, e oggi la critica dovrebbe essere più attenta e dire, nero su bianco, “oggi il jazz è questo”. C’è una grande confusione, bisognerebbe creare i presupposti per chiarire le idee, ma questo non solo in Italia.
Nel futuro, in che direzione si sposterà il jazz?
Bisognerebbe avere la sfera di cristallo. Come idea di fondo, come concetto filosofico, il jazz è sempre stata una musica di fusione, con una sua estetica. Non è ancora venuto fuori oggi un qualcosa di importante. Siamo ancora nel campo della ricerca? Non lo so. È una bella domanda, sulla quale sarebbe opportuno fare un dibattito internazionale.
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