Si apre con una tenue melodia di pianoforte di Alexander Hawkins il nuovo lavoro di Roberto Ottaviano, al quale prendono parte anche Marco Colonna al clarinetto, Giovanni Meier al contrabbasso e Zeno De Rossi alla batteria. Una linea, quella di Hawkins, che poi si arricchisce di elementi, prende forma e si mostra capace di una bellezza evocativa, sospesa e ancestrale. Ottaviano si innesta con il soprano nella spina dorsale di questa (un tradizionale africano) e delle altre tracce di “Eternal Love”, un lavoro essenzialmente basato su musiche di Don Cherry, John Coltrane, Dewey Redman e altri grandi del passato, accomunati dalla forza comunicativa dei loro pentagrammi. Nelle note di copertina Ottaviano descrive la concezione dell'album come il «[…] bisogno di un bagno mistico», che si traduce in musica attraverso melodie cantabili, cariche di speranza e rilassatezza espressiva.
オブリーク・ストラテジーズ / косые стратегии / oblique strategies / schuine strategieën / استراتيجيات منحرف / skrå strategier / 斜策略 / las estrategias oblicuas / তির্যক কৌশল / schräg strategien / אַבליק סטראַטעגיעס / stratégies obliques / kēlā papa kōnane o / kosi strategije
domenica 25 novembre 2018
sabato 24 novembre 2018
Rino Adamo – Sergio Corbini – Stefano Franceschini: “Endless Work” [Slam Productions, 2018]
Elettronica, violino, pianoforte, syth e fiati entrano della ricetta messa a punto dal trio composto da Rino Adamo, Sergio Corbini e Stefano Franceschini nel loro “Endless Work”. Si tratta di un album basato sulla forza della sperimentazione, dalla quale scaturiscono tracce ora leggibili e dall’aspetto melodico riconoscibile, ma anche intrecci sonori dalla complessa decifrazione. Gli elementi aggiunti di elettronica contribuiscono a creare un’estetica dall’ampio raggio formale, dove si innestano spunti di avanguardia, iniziative libere, ripetizioni ipnotiche, fasce di suono aggrovigliate e anche passaggi minimali, al confine con l’introspezione, come in Se una notte d’estate, la traccia che Sergio Corbini firma ispirandosi al romanzo di Italo Calvino “Se una notte d’inverno un viaggiatore” del 1979.
giovedì 22 novembre 2018
Roberto Magris: “World Gardens” [JMood Records, 2018]
Presentato recentemente a Chicago “World Gardens” è il nuovo lavoro discografico del pianista Roberto Magris, da diverso tempo attivo negli Stati Uniti dove ha messo insieme una serie di connessioni artistiche che lo hanno portato a collaborare con musicisti dall’elevato tasso espressivo. Ne è testimonianza anche quest’album, dove Magris si avvale della presenza di Dominique Sanders al contrabbasso, Brian Steever alla batteria e Pablo Sanhueza alle percussioni. L’ambito è quello del jazz mainstream, nell’accezione maggiore del termine, dove l’interplay, la grana sonora e lo sviluppo d’insieme sono al centro di un’estetica che unisce eleganza e muscolosità. Magris sceglie un percorso dalle varie latitudini culturali, come il titolo potrebbe suggerire, e unisce jazz standard, song, tradizionali arrangiati per il quartetto e originali. Ne deriva un "giardino musicale" rigoglioso e dalle diverse suggestioni.
martedì 20 novembre 2018
Susanna Stivali: “Caro Chico” [Incipit Records, 2018]
«Grazie a Chico per la sua musica immensa, per i suoi versi pieni di grazia e per avermi regalato la sua preziosa presenza […]». Susanna Stivali apre in questo modo la nota di copertina del suo “Caro Chico”, l’album attraverso il quale rende omaggio alla figura del cantautore brasiliano Chico Buarque. Si tratta di un lavoro che trasuda passione ed emozione, nel quale Stivali presenta un repertorio basato sulla musica di Buarque, per l’occasione rivista in versioni con testi in italiano, quasi tutti curati da Max De Tomassi. Alla realizzazione dell’album hanno preso parte diversi musicisti di spessore come, tra gli altri, Rita Marcotulli e Jaques Morelembaum, e dove, tra i diversi motivi di interesse, va sottolineato il duetto Stivali-Buarque nell’iniziale Morena dagli occhi d’acqua (Morena dos olhos d’água).
domenica 11 novembre 2018
Jazz Brugge 2018 “Crossing Cultures”
Torna l’appuntamento con il prestigioso festival in terra belga che in questa edizione, in programma nel weekend dal 16 al 18 novembre, presenta in cartellone dei grandi nomi come Elina Duni, Omer Avital, Tigran Hamasyan, Jakob Bro, James Brandon Lewis, Colin Stetson e altri ancora. Ne abbiamo parlato con Sarah Poesen, responsabile della comunicazione del KAAP Bruges, il centro artistico che organizza il festival
Qual è il tratto distintivo dell’edizione 2018?
Oggi il jazz sta incorporando elementi esterni, sia geografici che musicali, grazie ai quali si sta aggiornando organicamente. Con il tema di quest’anno “Crossing Cultures”, il festival Jazz Brugge evidenzia questa evoluzione. Il pubblico sarà piacevolmente sorpreso dalle influenze musicali provenienti da ogni angolo del mondo e potrà godere di musicisti nati in Albania, Armenia, Senegal, Marocco, Iraq e in nazioni del mondo.
Che tipo di pubblico frequenta il festival?
Non crediamo che ci sia un tipo di pubblico specifico per un festival jazz. Cerchiamo di raggiungere persone che hanno familiarità con il jazz, ma anche persone che possono essere sorprese dal genere. E ci concentriamo anche sulle famiglie con un progetto speciale per i bambini!
Quale ente organizza il festival e dove si tengono i concerti?
Jazz Brugge organizzato da due partner finanziati dal governo fiammingo: il centro artistico KAAP e il centro musicale Concertgebouw. Tutti i concerti si tengono al Concertgebouw Brugge in tre parti della struttura: la sala principale, la sala da musica da camera e uno studio più piccolo, ma ci saranno anche altri eventi nel resto dell’edificio con alcune piccole esibizioni.
Quali sono stati i momenti più interessanti della storia del festival?
Il festival è iniziato nel 2002, quando Bruges era la capitale culturale d’Europa. È stato l’inizio di una nuova tradizione, con un festival che si dedica esclusivamente al jazz europeo. Il festival divenne immediatamente un nuovo punto di riferimento nel panorama dei festival belgi e si tenne ogni due anni. Nel 2012, durante la sesta edizione, abbiamo organizzato una prima label night della nostra etichetta discografica W.E.R.F., che ha celebrato la sua centesima edizione. Ora, nel 2018, estendiamo l’attenzione, ma senza compromettere la sua formula di successo di esperienze di concerti uniche nella cornice eccezionale del Concertgebouw.
Che obiettivo avete per il futuro? Vorremmo continuare la tradizione del festival, ma stiamo anche sognando di “contaminare” tutta la città con la musica e con iniziative di vario genere.
Il programma completo di Jazz Brugge
Qual è il tratto distintivo dell’edizione 2018?
Oggi il jazz sta incorporando elementi esterni, sia geografici che musicali, grazie ai quali si sta aggiornando organicamente. Con il tema di quest’anno “Crossing Cultures”, il festival Jazz Brugge evidenzia questa evoluzione. Il pubblico sarà piacevolmente sorpreso dalle influenze musicali provenienti da ogni angolo del mondo e potrà godere di musicisti nati in Albania, Armenia, Senegal, Marocco, Iraq e in nazioni del mondo.
Che tipo di pubblico frequenta il festival?
Non crediamo che ci sia un tipo di pubblico specifico per un festival jazz. Cerchiamo di raggiungere persone che hanno familiarità con il jazz, ma anche persone che possono essere sorprese dal genere. E ci concentriamo anche sulle famiglie con un progetto speciale per i bambini!
Quale ente organizza il festival e dove si tengono i concerti?
Jazz Brugge organizzato da due partner finanziati dal governo fiammingo: il centro artistico KAAP e il centro musicale Concertgebouw. Tutti i concerti si tengono al Concertgebouw Brugge in tre parti della struttura: la sala principale, la sala da musica da camera e uno studio più piccolo, ma ci saranno anche altri eventi nel resto dell’edificio con alcune piccole esibizioni.
Quali sono stati i momenti più interessanti della storia del festival?
Il festival è iniziato nel 2002, quando Bruges era la capitale culturale d’Europa. È stato l’inizio di una nuova tradizione, con un festival che si dedica esclusivamente al jazz europeo. Il festival divenne immediatamente un nuovo punto di riferimento nel panorama dei festival belgi e si tenne ogni due anni. Nel 2012, durante la sesta edizione, abbiamo organizzato una prima label night della nostra etichetta discografica W.E.R.F., che ha celebrato la sua centesima edizione. Ora, nel 2018, estendiamo l’attenzione, ma senza compromettere la sua formula di successo di esperienze di concerti uniche nella cornice eccezionale del Concertgebouw.
Che obiettivo avete per il futuro? Vorremmo continuare la tradizione del festival, ma stiamo anche sognando di “contaminare” tutta la città con la musica e con iniziative di vario genere.
Il programma completo di Jazz Brugge
martedì 6 novembre 2018
Federica Michisanti Horn Trio: “Silent Rides” [Filibusta, 2018]
Esce per Filibusta Records l’album “Silent Rides” della contrabbassista e compositrice Federica Michisanti, per l’occasione in trio con Francesco Bigoni al tenore e clarinetto e Francesco Lento alla tromba e flicorno. Si tratta di un lavoro basato su brani appositamente scritti da Michisanti, la quale ci ha raccontato la genesi e lo sviluppo del nuovo progetto - dalla particolare struttura timbrica - che si pone in parallelo con Trioness, l’altro suo trio con Simone Maggio al pianoforte e Matt Renzi ai fiati
Come si è instaurata la collaborazione con i musicisti dell’Horn Trio Francesco Bigoni e Francesco Lento? Devo premettere che già da un po’ di tempo avevo l’idea di scrivere per un organico di strumenti che avessero un timbro simile tra loro, o archi o fiati. Questo perché i brani che compongo spesso sono a due o più voci che interagiscono, per cui avevo l’esigenza di utilizzare strumenti che avessero complessivamente un impasto sonoro più omogeneo. Ho pensato a una tromba e un sassofono tenore. Avevo già composto alcune cose pensando proprio a questo organico e un incentivo a proseguire in quella direzione è stato un messaggio di Matt Renzi, un musicista che stimo molto e con il quale ho inciso il mio precedente disco “ISK” (Filibusta Records, 2017), nel quale mi scriveva che sarebbe tornato in Italia solo per qualche settimana in estate e che avrebbe avuto piacere a suonare insieme. Così ho scritto tutta la “suite”, che poi è diventata il disco “Silent Rides”. Francesco Lento lo conosco da tempo, anche lui abita a Roma, e nel corso degli ultimi anni l’ho coinvolto diverse volte nei miei progetti. Inutile dire che è un musicista eccezionale, oltre a essere una persona gentile e disponibile, che si mette totalmente a disposizione della musica. Per tutti questi motivi l’ho ritenuto ideale per il progetto. Francesco Bigoni l’ho conosciuto di persona lo scorso febbraio, quando sono stata a Copenaghen per vedere un suo concerto insieme a Emanuele Maniscalco e Mark Solborg. Avevo sentito parlare di lui e avevo ascoltato alcune sue cose, il concerto mi piacque tantissimo ed ebbi conferma dell’opinione positiva che avevo già di Francesco. Quindi, quando all’inizio dell’estate decisi di registrare tutto il materiale già scritto per tale formazione con due fiati, decisamente pensai a Francesco Bigoni come terzo elemento stabile del trio.
Per la struttura di questo trio ti sei ispirata a una realtà del passato? L’ispirazione è stata unicamente la natura dei brani che compongo, cosa che, come dicevo prima, ha fatto nascere l’esigenza di far suonare due strumenti che avessero voci più omogenee tra loro. Sicuramente i miei ascolti passati come, riferendomi ai fiati, Ornette Coleman, Don Cherry, Eric Dolphy, Wayne Shorter, Kenny Wheeler, Lee Konitz, John Coltrane, Jimmy Giuffre e altri ancora, sono rimasti ben impressi in me, non tanto per le formazioni in cui questi musicisti suonavano, quanto per le loro composizioni e il linguaggio personalissimo di ciascuno di loro.
All’inizio del percorso che poi vi ha portato alla registrazione del disco, vi eravate posti un obiettivo espressivo? Non ci siamo posti alcun obiettivo, ma la mia personale intenzione era quella di creare un’opera che fosse un insieme di composizioni coerenti, alternate e raccordate da improvvisazioni che riportassero le emozioni nella stessa atmosfera, ma cercando di avere uno svolgimento che creasse momenti di tensione, sospensione e momenti di “riposo”, di risoluzione.
La musica che hai scritto per “Silent Rides” quanto ricalca il tuo modo di essere? Totalmente. Non potrebbe esserci separazione tra quello che sono e quello che compongo, e questo comporta il fatto che la matrice rimane sempre la stessa, ma la scrittura procede ed evolve di pari passo con il cammino incessante verso la mia essenza.
Come si è instaurata la collaborazione con i musicisti dell’Horn Trio Francesco Bigoni e Francesco Lento? Devo premettere che già da un po’ di tempo avevo l’idea di scrivere per un organico di strumenti che avessero un timbro simile tra loro, o archi o fiati. Questo perché i brani che compongo spesso sono a due o più voci che interagiscono, per cui avevo l’esigenza di utilizzare strumenti che avessero complessivamente un impasto sonoro più omogeneo. Ho pensato a una tromba e un sassofono tenore. Avevo già composto alcune cose pensando proprio a questo organico e un incentivo a proseguire in quella direzione è stato un messaggio di Matt Renzi, un musicista che stimo molto e con il quale ho inciso il mio precedente disco “ISK” (Filibusta Records, 2017), nel quale mi scriveva che sarebbe tornato in Italia solo per qualche settimana in estate e che avrebbe avuto piacere a suonare insieme. Così ho scritto tutta la “suite”, che poi è diventata il disco “Silent Rides”. Francesco Lento lo conosco da tempo, anche lui abita a Roma, e nel corso degli ultimi anni l’ho coinvolto diverse volte nei miei progetti. Inutile dire che è un musicista eccezionale, oltre a essere una persona gentile e disponibile, che si mette totalmente a disposizione della musica. Per tutti questi motivi l’ho ritenuto ideale per il progetto. Francesco Bigoni l’ho conosciuto di persona lo scorso febbraio, quando sono stata a Copenaghen per vedere un suo concerto insieme a Emanuele Maniscalco e Mark Solborg. Avevo sentito parlare di lui e avevo ascoltato alcune sue cose, il concerto mi piacque tantissimo ed ebbi conferma dell’opinione positiva che avevo già di Francesco. Quindi, quando all’inizio dell’estate decisi di registrare tutto il materiale già scritto per tale formazione con due fiati, decisamente pensai a Francesco Bigoni come terzo elemento stabile del trio.
Per la struttura di questo trio ti sei ispirata a una realtà del passato? L’ispirazione è stata unicamente la natura dei brani che compongo, cosa che, come dicevo prima, ha fatto nascere l’esigenza di far suonare due strumenti che avessero voci più omogenee tra loro. Sicuramente i miei ascolti passati come, riferendomi ai fiati, Ornette Coleman, Don Cherry, Eric Dolphy, Wayne Shorter, Kenny Wheeler, Lee Konitz, John Coltrane, Jimmy Giuffre e altri ancora, sono rimasti ben impressi in me, non tanto per le formazioni in cui questi musicisti suonavano, quanto per le loro composizioni e il linguaggio personalissimo di ciascuno di loro.
All’inizio del percorso che poi vi ha portato alla registrazione del disco, vi eravate posti un obiettivo espressivo? Non ci siamo posti alcun obiettivo, ma la mia personale intenzione era quella di creare un’opera che fosse un insieme di composizioni coerenti, alternate e raccordate da improvvisazioni che riportassero le emozioni nella stessa atmosfera, ma cercando di avere uno svolgimento che creasse momenti di tensione, sospensione e momenti di “riposo”, di risoluzione.
La musica che hai scritto per “Silent Rides” quanto ricalca il tuo modo di essere? Totalmente. Non potrebbe esserci separazione tra quello che sono e quello che compongo, e questo comporta il fatto che la matrice rimane sempre la stessa, ma la scrittura procede ed evolve di pari passo con il cammino incessante verso la mia essenza.
lunedì 29 ottobre 2018
David Murray meets The Tower Jazz Composers Orchestra [Bologna Jazz Festival 2018 “The Big Band Theory”]
Nel cartellone del Bologna Jazz Festival 2018, rassegna che anche quest’anno si conferma ai vertici dell’agenda jazzistica europea con un’edizione dedicata alle grandi orchestre, spicca l’appuntamento, fissato per sabato 3 novembre presso l’Unipol Auditorium di Bologna, con David Murray e la Tower Jazz Composers Orchestra, l’ensemble residente del prestigioso Jazz Club Ferrara. Artisti che non hanno mai suonato insieme e che daranno vita a una produzione originale che vivrà sul senso dell’inatteso, sia dal punto di vista espressivo sia formale. Per l’occasione abbiamo raggiunto Piero Bittolo Bon e Alfonso Santimone, i compositori e direttori della Tower Jazz Composers Orchestra, che ci hanno raccontato della loro realtà e di come approcceranno l’imminente concerto
Quando e come è nato il progetto della Tower Jazz Composers Orchestra?
PBB: Nel 2015 il Jazz Club Ferrara ha messo a disposizione lo spazio del Torrione San Giovanni per l’organizzazione di un workshop sull’improvvisazione e i repertori meno battuti del jazz intitolato “The Unreal Book”, curato da me e Alfonso Santimone. Visto il successo dell’operazione e la qualità dei musicisti coinvolti, abbiamo pensato di consolidare un nucleo di partecipanti al seminario in una piccola orchestra embrionale, che si è fatta le ossa calcando il palco del Torrione in un paio di occasioni. Da lì a espandere il gruppo a una formazione più simile a quella di una big band il passo è stato breve, una volta integrate le fila con alcuni tra i più interessanti giovani musicisti dell'area emiliana e non solo: nella TJCO militano e hanno militato friulani, toscani, veneti, marchigiani e un danese! Il club ha dato il suo entusiastico appoggio all’idea di una residenza a cadenza mensile, e sono ormai tre anni che il progetto va felicemente avanti.
Come si sviluppano le idee all’interno dell’orchestra?
AS: La caratteristica della TJCO è di essere un progetto “orizzontale”, ogni musicista ha la possibilità di proporre una composizione o l’arrangiamento di un brano altrui. Naturalmente i più esperti tra noi hanno facoltà di dare consigli in merito alla scrittura, all'orchestrazione e a tutti i vari parametri della composizione. I musicisti sono parte di un’articolata rete di giovani, e meno giovani, improvvisatori che animano le scene delle aree comprese tra Livorno e Trieste. La scelta dei musicisti non è quindi operata con un meccanismo di reclutamento “centralizzato”. Spesso tutto avviene con una dinamica simile alla reazione a catena!
Qual è il fine artistico di questa realtà?
PBB: L’orchestra nasce come un laboratorio, e i propositi non sono cambiati. Tutti i membri della TJCO hanno la possibilità di dirigere e contribuire al repertorio – che ormai dopo tre anni di attività è un corpus davvero voluminoso - con brani originali o arrangiamenti. Si tratta di un’opportunità più unica che rara per un giovane musicista interessato a confrontarsi con la scrittura per largo organico e con le problematiche musicali, logistiche e - alle volte - umane che ne possono derivare. La più grande difficoltà nel coordinare questo organico, e allo stesso il più grande stimolo, sta nel dare coerenza a livello di direzione musicale a un repertorio scritto da così tante penne diverse.
AS: La TJCO è sempre più un laboratorio impegnato in un lavoro di sviluppo della tradizione della big-band di matrice jazzistica. Molto spesso la scrittura si allontana dall’idioma più "classico" o vi si riferisce in modo obliquo e stimolante. Sicuramente Piero e io, in qualità di direttori artistici del progetto, spingiamo a sperimentare il più possibile evitando la logica del compito di arrangiamento da conservatorio. È essenziale conoscere la grande tradizione della big-band e dominarne le tecniche, ma per rispettare la tradizione significa svilupparla, rischiare, aprirsi agli stimoli artistici a trecentosessanta gradi, cercare di dire qualcosa di autentico e personale esattamente come ci hanno insegnato tutti i grandi maestri che hanno fatto della big-band il centro della loro ricerca.
Per il prossimo concerto che vi vedrà protagonisti insieme a David Murray avete pensato a qualcosa di particolare?
AS: Ho appena concluso l’arrangiamento di un mio vecchio “classico”, una specie di maelstrom dal sapore blues. Qualcosa che fa parte del mio percorso di ricerca sulla metrica policentrica, su un approccio eterofonico all’armonia e sullo sviluppo di questi aspetti nelle figurazioni melodiche, il tutto facendo cortocircuitare la forma, quasi occultata, della composizione con gli spazi improvvisativi. Ho realizzato questo arrangiamento appositamente per questa occasione. Immagino che sia un mare navigabile dal linguaggio sanguigno di David Murray, che è stato uno dei miei “eroi” quando ero adolescente. Vedremo cosa verrà fuori! In caso le prove si complicassero troppo, abbiamo un repertorio di composizioni e arrangiamenti originali molto vasto cui attingere.
Come pensate di organizzare la scaletta?
PBB: Suoneremo in prevalenza brani scritti e arrangiati dallo stesso Murray, più qualche nostro classico e un paio di novità che lo vedranno impegnato comunque come solista.
Cosa vi aspettate da questa esperienza?
AS: Di maturare idee nuove, di condividere la musica con gli amici di sempre e con David Murray dal quale sicuramente trarremo molta ispirazione per il futuro. Dalle tante occasioni che ho fortunatamente avuto di confrontarmi con musicisti che sono parte della grande tradizione del jazz americano, alcuni dei quali avevano l’età dei miei nonni o anche più, sono sempre uscito rinnovato, arricchito e con tante strade aperte davanti a me da poter esplorare. Spero che ci succeda anche questa volta e immagino che per i tanti musicisti ventenni che sono parte di TJCO sarà un’esperienza elettrizzante!
Quando e come è nato il progetto della Tower Jazz Composers Orchestra?
PBB: Nel 2015 il Jazz Club Ferrara ha messo a disposizione lo spazio del Torrione San Giovanni per l’organizzazione di un workshop sull’improvvisazione e i repertori meno battuti del jazz intitolato “The Unreal Book”, curato da me e Alfonso Santimone. Visto il successo dell’operazione e la qualità dei musicisti coinvolti, abbiamo pensato di consolidare un nucleo di partecipanti al seminario in una piccola orchestra embrionale, che si è fatta le ossa calcando il palco del Torrione in un paio di occasioni. Da lì a espandere il gruppo a una formazione più simile a quella di una big band il passo è stato breve, una volta integrate le fila con alcuni tra i più interessanti giovani musicisti dell'area emiliana e non solo: nella TJCO militano e hanno militato friulani, toscani, veneti, marchigiani e un danese! Il club ha dato il suo entusiastico appoggio all’idea di una residenza a cadenza mensile, e sono ormai tre anni che il progetto va felicemente avanti.
Come si sviluppano le idee all’interno dell’orchestra?
AS: La caratteristica della TJCO è di essere un progetto “orizzontale”, ogni musicista ha la possibilità di proporre una composizione o l’arrangiamento di un brano altrui. Naturalmente i più esperti tra noi hanno facoltà di dare consigli in merito alla scrittura, all'orchestrazione e a tutti i vari parametri della composizione. I musicisti sono parte di un’articolata rete di giovani, e meno giovani, improvvisatori che animano le scene delle aree comprese tra Livorno e Trieste. La scelta dei musicisti non è quindi operata con un meccanismo di reclutamento “centralizzato”. Spesso tutto avviene con una dinamica simile alla reazione a catena!
Qual è il fine artistico di questa realtà?
PBB: L’orchestra nasce come un laboratorio, e i propositi non sono cambiati. Tutti i membri della TJCO hanno la possibilità di dirigere e contribuire al repertorio – che ormai dopo tre anni di attività è un corpus davvero voluminoso - con brani originali o arrangiamenti. Si tratta di un’opportunità più unica che rara per un giovane musicista interessato a confrontarsi con la scrittura per largo organico e con le problematiche musicali, logistiche e - alle volte - umane che ne possono derivare. La più grande difficoltà nel coordinare questo organico, e allo stesso il più grande stimolo, sta nel dare coerenza a livello di direzione musicale a un repertorio scritto da così tante penne diverse.
AS: La TJCO è sempre più un laboratorio impegnato in un lavoro di sviluppo della tradizione della big-band di matrice jazzistica. Molto spesso la scrittura si allontana dall’idioma più "classico" o vi si riferisce in modo obliquo e stimolante. Sicuramente Piero e io, in qualità di direttori artistici del progetto, spingiamo a sperimentare il più possibile evitando la logica del compito di arrangiamento da conservatorio. È essenziale conoscere la grande tradizione della big-band e dominarne le tecniche, ma per rispettare la tradizione significa svilupparla, rischiare, aprirsi agli stimoli artistici a trecentosessanta gradi, cercare di dire qualcosa di autentico e personale esattamente come ci hanno insegnato tutti i grandi maestri che hanno fatto della big-band il centro della loro ricerca.
Per il prossimo concerto che vi vedrà protagonisti insieme a David Murray avete pensato a qualcosa di particolare?
AS: Ho appena concluso l’arrangiamento di un mio vecchio “classico”, una specie di maelstrom dal sapore blues. Qualcosa che fa parte del mio percorso di ricerca sulla metrica policentrica, su un approccio eterofonico all’armonia e sullo sviluppo di questi aspetti nelle figurazioni melodiche, il tutto facendo cortocircuitare la forma, quasi occultata, della composizione con gli spazi improvvisativi. Ho realizzato questo arrangiamento appositamente per questa occasione. Immagino che sia un mare navigabile dal linguaggio sanguigno di David Murray, che è stato uno dei miei “eroi” quando ero adolescente. Vedremo cosa verrà fuori! In caso le prove si complicassero troppo, abbiamo un repertorio di composizioni e arrangiamenti originali molto vasto cui attingere.
Come pensate di organizzare la scaletta?
PBB: Suoneremo in prevalenza brani scritti e arrangiati dallo stesso Murray, più qualche nostro classico e un paio di novità che lo vedranno impegnato comunque come solista.
Cosa vi aspettate da questa esperienza?
AS: Di maturare idee nuove, di condividere la musica con gli amici di sempre e con David Murray dal quale sicuramente trarremo molta ispirazione per il futuro. Dalle tante occasioni che ho fortunatamente avuto di confrontarmi con musicisti che sono parte della grande tradizione del jazz americano, alcuni dei quali avevano l’età dei miei nonni o anche più, sono sempre uscito rinnovato, arricchito e con tante strade aperte davanti a me da poter esplorare. Spero che ci succeda anche questa volta e immagino che per i tanti musicisti ventenni che sono parte di TJCO sarà un’esperienza elettrizzante!
Keith Jarrett: “La Fenice” [ECM, 2018]
Ramificazioni blues; spaccati di boogie-woogie; una “The Sun Whose Rays” di struggente bellezza melodica, incline a un pianismo classico dall’elevato tasso espressivo; ampie pagine di improvvisazione – compresa una traccia di apertura di quasi venti minuti -, che mostrano nervi tesi, angolature improvvise, ma anche ellissi logiche e idee cantabili; una versione trascendentale di “Stella By Starlight” e una innumerevole serie di spunti di riflessione per un ascolto totale e avvolgente. Questo e molto altro è racchiuso nel doppio album “La Fenice”, nel quale Keith Jarrett si produce nell’arte del piano solo e del suo multiforme mondo estetico, essenziale e denso, sottinteso ed esplicito.
mercoledì 24 ottobre 2018
Roberto Negro: “Kings And Bastards” [CAM Jazz, 2018]
Al suo primo album in pianoforte solo Roberto Negro, nato a Torino ma cresciuto a Kinshasa e da venti anni di stanza in Francia, presenta una scaletta di tredici tracce che, nel loro insieme, presentano diversi spunti d’interesse, sia formali sia espressivi. Negro propone un pianismo che, tra scrittura e improvvisazione, spazia da situazioni che richiamano il mondo accademico a brani di estrema contemporaneità, segnati dall’utilizzo di componenti elettroniche e da un misurato, quanto azzeccato e decisivo, lavoro di post produzione. “Kings And Bastards” è una raccolta di idee sviluppate tra studio di registrazione, sessioni sul pianoforte di casa e live performonce, che abbracciano le trasparenze della ambient music, lo sperimentalismo d’avanguardia, elementi afrocentrici e un buon gusto per l’ibridazione di suoni e sensazioni che a ogni passaggio rivelano nuovi colori.
domenica 21 ottobre 2018
Camilla Battaglia: “EMIT: Rotator Tenet” [Dodicilune, 2018]
Michele Tino al sassofono contralto, Andrea Lombardini al basso elettrico, Bernardo Guerra alla batteria, e l’ospite Ambrose Akinmusire alla tromba, accompagnano la cantante e compositrice Camilla Battaglia nel suo nuovo lavoro “EMIT: RotatoR TeneT” (Dodicilune, 2018). Si tratta di un album basato sul concetto di “tempo”, che dà seguito al precedente “Tomorrow - 2 More Rows Of Tomorrow” (Dodiclune, 2016) e dove Camilla Battaglia conferma la sua originalità espressiva, tra melodie cantabili, forme inusuali e una buona dose di sperimentazione
Al centro di questo lavoro c’è il “concetto di tempo”, come del resto era accaduto nel precedente “Tomorrow-2more Rows Of Tomorrows” (Dodicilune, 2016). Quali sono delle differenze tra i due album? Il Tempo è sicuramente un aspetto della nostra esistenza e della realtà - e contemporaneamente della musica - che mi affascina grandemente, anche se sono già alla ricerca di un altro parametro che possa ispirare la musica, così da smettere di annoiare tutti con questa “fissazione”. Nella musica di “Tomorrow” il tempo era descritto con un taglio personale. Si trattava di una prospettiva soggettiva su percezioni relative a esperienze personali che mi facevano interrogare sulla natura di questo grande contenitore: i fusi orari, le distanze (spazio-tempo), il valore che assegniamo alle esperienze (quantità-qualità), il divenire delle cose, l’evoluzione dei rapporti e delle peculiarità degli affetti. “EMIT: Rotator Tenet” è invece un percorso più oggettivo, la rappresentazione in musica di teorie scientifiche che ipotizzano l’esistenza di realtà molteplici che convivono in tempi e spazi diversi, annullando la nostra concezione di “passato-presente-futuro”. Direi che il trait d’union potrebbe essere rappresentato dal celebre aforisma di Albert Einstein che dice: «Quando un uomo siede vicino a una ragazza carina per un’ora, sembra che sia passato un minuto. Ma fatelo sedere su una stufa accesa per un minuto e gli sembrerà più lungo di qualsiasi ora. Questa è la relatività». Sono partita da esperienze personali e soggettive per interessarmene poi da un punto di vista più specifico e universale.
I tuoi interessi extra musicali, come letteratura e filosofia, in che modo entrano nelle composizioni? Lo spazio per la poesia occupato nelle composizioni è per me un’esigenza espressiva imprescindibile. Malgrado la realtà possa essere inquadrata dalla scienza per quello che è oltre alla nostra percezione, trovo sempre grande ispirazione e conforto nella coscienza universale contenuta nei versi dei poeti o nelle speculazioni dei filosofi. Ritrovo in questo bacino di immagini, parole e domande la stessa forza verso la ricerca della verità e di ciò che sta al di là dell’ovvio che si possono ritrovare nei risultati delle ricerche scientifiche.
La scelta di Ambrose Akinmusire come ospite del disco è una dettata da uno specifico motivo? Ambrose rappresenta per me un’icona assoluta di ricerca in campo artistico. Uno strumentista con un suono unico e personale. Un’artista sensibile che non smette mai di chiedersi che cosa ci sia dopo o al di là di quello che ha già sperimentato. Ambrose è a mio avviso - e non solo mio, direi - una delle voci più forti della scena contemporanea sia come improvvisatore che come compositore ed è stato il rispetto assoluto verso la sua statura artistica a sancire la nostra collaborazione.
Dopo un inizio di percorso artistico caratterizzato dall’interpretazione di standard sta emergendo preponderante la tua voglia di sperimentazione. In tal senso, hai delle prassi che segui, un’idea di base, un concetto dal quale poi tutto si sviluppa? Sono grata del mio percorso. La musica ha sempre fatto parte della mia vita e ho incontrato moltissime persone che hanno di volta in volta messo in discussioni le mie certezze, spingendomi a essere costantemente curiosa. Per me la musica è ricerca: ricerca di compositori, musicisti, perfomer in diversi ambiti artistici; ricerca di significato (trovare sempre un motivo valido almeno al 60% che risponda alla domanda: perché fare musica?); ricerca sul suono; ricerca sulle parole, direttamente connessa alla natura privilegiata del mio strumento che così direttamente può esprimere un messaggio.
Perché canti scalza? Stare a piedi nudi è sempre stata un’abitudine confortevole, disprezzata nell’infanzia da tutta la famiglia all’unanimità. Cantare a piedi nudi per me è un incentivo per connettere senza filtri tutti gli elementi con cui lavoro come performer: testa (testo, messaggio, idee), pancia (suono, volume, intenzione) e terreno (esistenza e rappresentazione fisica del messaggio).
Al centro di questo lavoro c’è il “concetto di tempo”, come del resto era accaduto nel precedente “Tomorrow-2more Rows Of Tomorrows” (Dodicilune, 2016). Quali sono delle differenze tra i due album? Il Tempo è sicuramente un aspetto della nostra esistenza e della realtà - e contemporaneamente della musica - che mi affascina grandemente, anche se sono già alla ricerca di un altro parametro che possa ispirare la musica, così da smettere di annoiare tutti con questa “fissazione”. Nella musica di “Tomorrow” il tempo era descritto con un taglio personale. Si trattava di una prospettiva soggettiva su percezioni relative a esperienze personali che mi facevano interrogare sulla natura di questo grande contenitore: i fusi orari, le distanze (spazio-tempo), il valore che assegniamo alle esperienze (quantità-qualità), il divenire delle cose, l’evoluzione dei rapporti e delle peculiarità degli affetti. “EMIT: Rotator Tenet” è invece un percorso più oggettivo, la rappresentazione in musica di teorie scientifiche che ipotizzano l’esistenza di realtà molteplici che convivono in tempi e spazi diversi, annullando la nostra concezione di “passato-presente-futuro”. Direi che il trait d’union potrebbe essere rappresentato dal celebre aforisma di Albert Einstein che dice: «Quando un uomo siede vicino a una ragazza carina per un’ora, sembra che sia passato un minuto. Ma fatelo sedere su una stufa accesa per un minuto e gli sembrerà più lungo di qualsiasi ora. Questa è la relatività». Sono partita da esperienze personali e soggettive per interessarmene poi da un punto di vista più specifico e universale.
I tuoi interessi extra musicali, come letteratura e filosofia, in che modo entrano nelle composizioni? Lo spazio per la poesia occupato nelle composizioni è per me un’esigenza espressiva imprescindibile. Malgrado la realtà possa essere inquadrata dalla scienza per quello che è oltre alla nostra percezione, trovo sempre grande ispirazione e conforto nella coscienza universale contenuta nei versi dei poeti o nelle speculazioni dei filosofi. Ritrovo in questo bacino di immagini, parole e domande la stessa forza verso la ricerca della verità e di ciò che sta al di là dell’ovvio che si possono ritrovare nei risultati delle ricerche scientifiche.
La scelta di Ambrose Akinmusire come ospite del disco è una dettata da uno specifico motivo? Ambrose rappresenta per me un’icona assoluta di ricerca in campo artistico. Uno strumentista con un suono unico e personale. Un’artista sensibile che non smette mai di chiedersi che cosa ci sia dopo o al di là di quello che ha già sperimentato. Ambrose è a mio avviso - e non solo mio, direi - una delle voci più forti della scena contemporanea sia come improvvisatore che come compositore ed è stato il rispetto assoluto verso la sua statura artistica a sancire la nostra collaborazione.
Dopo un inizio di percorso artistico caratterizzato dall’interpretazione di standard sta emergendo preponderante la tua voglia di sperimentazione. In tal senso, hai delle prassi che segui, un’idea di base, un concetto dal quale poi tutto si sviluppa? Sono grata del mio percorso. La musica ha sempre fatto parte della mia vita e ho incontrato moltissime persone che hanno di volta in volta messo in discussioni le mie certezze, spingendomi a essere costantemente curiosa. Per me la musica è ricerca: ricerca di compositori, musicisti, perfomer in diversi ambiti artistici; ricerca di significato (trovare sempre un motivo valido almeno al 60% che risponda alla domanda: perché fare musica?); ricerca sul suono; ricerca sulle parole, direttamente connessa alla natura privilegiata del mio strumento che così direttamente può esprimere un messaggio.
Perché canti scalza? Stare a piedi nudi è sempre stata un’abitudine confortevole, disprezzata nell’infanzia da tutta la famiglia all’unanimità. Cantare a piedi nudi per me è un incentivo per connettere senza filtri tutti gli elementi con cui lavoro come performer: testa (testo, messaggio, idee), pancia (suono, volume, intenzione) e terreno (esistenza e rappresentazione fisica del messaggio).
martedì 16 ottobre 2018
Bud Powell Jazz Orchestra: “Dedalo” [Maglie Jazz, 2018]
Prodotto dall’Associazione Culturale Jazz Bud Powell di Maglie, in provincia di Lecce, e Antonella Chionna, “Dedalo” è l’album che testimonia l’impegno e la passione dell’orchestra che fa riferimento a questa realtà. Le composizioni originali in scaletta e i relativi arrangiamenti sono firmati dal direttore dell’orchestra Gabriele Di Franco, il quale nelle note di copertina sottolinea la forza di intenti dell’associazione: «[…] Che lottando, grazie agli utopistici ideali di noi soci, va avanti, ogni giorno, per il puro e semplice amore della musica». Uno stimolo forte dunque, che dà poi forma concreta a un sound dal grande respiro timbrico, emanato dei ventitré elementi in line up ai quali si aggiungono in alcuni brani Francesco Negro al pianoforte e Marcello Allulli al tenore. Tanti spunti di interesse per un ascolto che conosce melodie cantabili, riferimenti al repertorio mainstream del jazz orchestrale, e lampi di contemporaneità, soprattutto grazie agli interventi della chitarra elettrica di Giancarlo Del Vitto. Inoltre, nel booklet ogni brano è brevemente argomentato per comprenderne al meglio l’intenzione espressiva.
domenica 14 ottobre 2018
Marco Pacassoni: “Frank & Ruth” [Esordisco, 2018]
Quello realizzato dal vibrafonista e compositore Marco Pacassoni è un omaggio alla figura di Frank Zappa, ottenuto attraverso la rilettura di alcuni suoi celebri brani, ma è anche, e soprattutto, un focus su Ruth Underwood, percussionista per molti anni al fianco del Maestro di Baltimora e ingrediente fondamentale nella miscela del sound di matrice zappiana. Nell’album “Frank & Ruth” con Pacassoni troviamo i fedeli Enzo Bocciero al pianoforte e Lorenzo De Angeli al basso, e alcuni musicisti ospiti di gran rilievo come la cantante Petra Magoni, Gregory Hutchinson alla batteria e il chitarrista Alberto Lombardi, che si è anche occupato della produzione del disco. Ne abbiamo parlato con Marco Pacassoni
Dopo tre album basati su tracce originali cosa ti ha spinto verso la rilettura di un repertorio?
Sono stato scelto dal produttore francese Pierre Ruiz a rappresentare attraverso la musica di Frank Zappa il talento e la creatività della sua percussionista Ruth Underwood. Ho accettato subito e con tanto entusiasmo perché, studiandola e ascoltandola, ho scoperto molte similitudini con il mio modo di suonare, prendendola come stimolo e ispirazione nel mio approccio al vibrafono e marimba. L’idea principale era quella di esaltare con i miei strumenti l’estro e il talento di una percussionista rimasta sempre in ombra e poco considerata nella storia delle percussioni. Ritengo Ruth una musicista e performer fenomenale, e grazie a Pierre Ruiz ho scoperto un approccio ai miei strumenti molto creativo e tecnico con fondamentale importanza alla musicalità.
Come hai approcciato gli arrangiamenti dei brani?
È stato stimolante e interessante arrangiare i brani di Zappa mettendoci “del mio”, cercando di renderli ancor più originali e attuali attraverso piccole variazioni ritmiche e rimanendo sempre molto fedele alle melodie. Frank Zappa è patrimonio della musica e come la musica classica va rispettato. Ogni suo brano l’ho arrangiato esaltando il sound del vibrafono e della marimba, dando molto spazio anche al suono tradizionale della chitarra zappiana. Molto importante è stato il rispetto per la musica e le sue melodie, cercando di riarmonizzare delle parti e di cambiare con piccole variazioni le metriche per creare interesse diverso dal solito ascolto dei brani, attuando il mio modo di arrangiare che mi ha un po’ contraddistinto nei miei lavori originali molto contemporary jazz.
In scaletta c’è anche un brano originale dedicato a Ruth Underwood.
Mi sembrava giusto e bello comporre un brano originale dedicato alla protagonista del disco Ruth Underwood e prendendo spunto dal groove del brano Inca Roads di Frank ho voluto scrivere una nuova melodia e armonia esaltando e ripercorrendo l’estro di Ruth sia sul vibrafono sia sulla marimba.
Cosa ha questo lavoro incentrato sulla musica di Zappa di diverso dai tanti incentrati sulla sua musica?
Leggendo le tante recensioni arrivate da tutto il mondo, soprattutto da fanatici zappiani (che erano quelli che temevamo di più), centralizzare la musica di Zappa sui miei strumenti (vibrafono e marimba) è stata una scelta vincente, in quanto abbiamo esaltato strumenti fondamentali nella discografia di Zappa e poco rappresentati nei tanti tributi usciti in precedenza. Altra cosa diversa è la formazione ristretta a un quintetto con ospite, la talentuosa voce di Petra Magoni, su un brano, Planet Of Baritone Women che solo lei avrebbe potuto interpretare con meravigliosa bellezza.
Per quali caratteristiche hai scelto i musicisti ospiti?
Pierre ha voluto fortemente come produttore artistico il chitarrista Alberto Lombardi che ha curato il mix e mastering del disco. Alberto è un ottimo chitarrista e produttore che ha esaltato ogni sfumatura di ogni strumento creando un gran suono. La sua partecipazione anche come chitarrista ha rappresentato egregiamente anche la chitarra Zappiana, esprimendo con la sua creatività parti fondamentali nella riuscita degli arrangiamenti. Greg Hutchinson non ha bisogno certamente di presentazioni ed averlo avuto nella band è stato, a livello ritmico e musicale, un valore aggiunto. Petra Magoni è stata scelta come ospite perché, come dicevo prima, è l’unica cantante che poteva interpretare con il suo talento e estro compositivo/improvvisativo un brano tra i più difficili, vocalmente parlando, della discografia di Zappa e la ringrazio di cuore per aver partecipato con tanto entusiasmo alla realizzazione di Planet Of Baritone Women, curando gli arrangiamenti vocali del brano. Un grazie anche ai miei “inseparabili” Enzo Bocciero e Lorenzo De Angeli che attraverso il loro talento hanno interpretato partiture non semplici da eseguire. Vibrafono, marimba, chitarra, basso, batteria e voce… un mix perfetto.
Dopo tre album basati su tracce originali cosa ti ha spinto verso la rilettura di un repertorio?
Sono stato scelto dal produttore francese Pierre Ruiz a rappresentare attraverso la musica di Frank Zappa il talento e la creatività della sua percussionista Ruth Underwood. Ho accettato subito e con tanto entusiasmo perché, studiandola e ascoltandola, ho scoperto molte similitudini con il mio modo di suonare, prendendola come stimolo e ispirazione nel mio approccio al vibrafono e marimba. L’idea principale era quella di esaltare con i miei strumenti l’estro e il talento di una percussionista rimasta sempre in ombra e poco considerata nella storia delle percussioni. Ritengo Ruth una musicista e performer fenomenale, e grazie a Pierre Ruiz ho scoperto un approccio ai miei strumenti molto creativo e tecnico con fondamentale importanza alla musicalità.
Come hai approcciato gli arrangiamenti dei brani?
È stato stimolante e interessante arrangiare i brani di Zappa mettendoci “del mio”, cercando di renderli ancor più originali e attuali attraverso piccole variazioni ritmiche e rimanendo sempre molto fedele alle melodie. Frank Zappa è patrimonio della musica e come la musica classica va rispettato. Ogni suo brano l’ho arrangiato esaltando il sound del vibrafono e della marimba, dando molto spazio anche al suono tradizionale della chitarra zappiana. Molto importante è stato il rispetto per la musica e le sue melodie, cercando di riarmonizzare delle parti e di cambiare con piccole variazioni le metriche per creare interesse diverso dal solito ascolto dei brani, attuando il mio modo di arrangiare che mi ha un po’ contraddistinto nei miei lavori originali molto contemporary jazz.
Mi sembrava giusto e bello comporre un brano originale dedicato alla protagonista del disco Ruth Underwood e prendendo spunto dal groove del brano Inca Roads di Frank ho voluto scrivere una nuova melodia e armonia esaltando e ripercorrendo l’estro di Ruth sia sul vibrafono sia sulla marimba.
Cosa ha questo lavoro incentrato sulla musica di Zappa di diverso dai tanti incentrati sulla sua musica?
Leggendo le tante recensioni arrivate da tutto il mondo, soprattutto da fanatici zappiani (che erano quelli che temevamo di più), centralizzare la musica di Zappa sui miei strumenti (vibrafono e marimba) è stata una scelta vincente, in quanto abbiamo esaltato strumenti fondamentali nella discografia di Zappa e poco rappresentati nei tanti tributi usciti in precedenza. Altra cosa diversa è la formazione ristretta a un quintetto con ospite, la talentuosa voce di Petra Magoni, su un brano, Planet Of Baritone Women che solo lei avrebbe potuto interpretare con meravigliosa bellezza.
Per quali caratteristiche hai scelto i musicisti ospiti?
Pierre ha voluto fortemente come produttore artistico il chitarrista Alberto Lombardi che ha curato il mix e mastering del disco. Alberto è un ottimo chitarrista e produttore che ha esaltato ogni sfumatura di ogni strumento creando un gran suono. La sua partecipazione anche come chitarrista ha rappresentato egregiamente anche la chitarra Zappiana, esprimendo con la sua creatività parti fondamentali nella riuscita degli arrangiamenti. Greg Hutchinson non ha bisogno certamente di presentazioni ed averlo avuto nella band è stato, a livello ritmico e musicale, un valore aggiunto. Petra Magoni è stata scelta come ospite perché, come dicevo prima, è l’unica cantante che poteva interpretare con il suo talento e estro compositivo/improvvisativo un brano tra i più difficili, vocalmente parlando, della discografia di Zappa e la ringrazio di cuore per aver partecipato con tanto entusiasmo alla realizzazione di Planet Of Baritone Women, curando gli arrangiamenti vocali del brano. Un grazie anche ai miei “inseparabili” Enzo Bocciero e Lorenzo De Angeli che attraverso il loro talento hanno interpretato partiture non semplici da eseguire. Vibrafono, marimba, chitarra, basso, batteria e voce… un mix perfetto.
mercoledì 10 ottobre 2018
Pericopes: “What What” [Unit Records, 2018]
Con “What What” il duo Pericopes, composto dal sassofonista Emiliano Vernizzi, soprano e tenore, e dal pianista Alessandro Sgobbio, dà seguito a una duratura collaborazione che in oltre dieci anni ha prodotto sei lavori discografici. Le nove tracce proposte, tutte originali, emanano un sound leggibile e melodicamente cantabile, ma che devia spesso verso momenti intimi e introspettivi, con situazioni che si increspano, diventano esili o prossime alla trasparenza. C’è una filigrana di malinconia che lega buona parte di un insieme dal profondo scavo espressivo, costruito attraverso una solida intenzione, di forme, colori e atmosfere. Prima di arrivare nello studio di registrazione Artesuono di Stefano Amerio, il duo ha affinato le proprie idee tra Parigi, i tanti concerti e una particolare residenza artistica nel Monferrato, come Alessandro Sgobbio ci ha raccontato: «Eravamo nella piccola località di Moleto, che si raggiunge passando attraverso un magnifico vigneto circolare. Un luogo paradisiaco, immerso nel verde. Durante la giornata lavoravamo ai vari brani, per poi eseguirli, alla sera, davanti ad alcuni residenti della zona e qualche turista di passaggio. Durante il nostro ultimo giorno di permanenza, alcuni ragazzi del posto ci hanno invitato a visitare il “Bar Chiuso”, un (non) locale situato sulla sommità di una collinetta, dalla quale è possibile ammirare una vista mozzafiato sui vigneti del Monferrato, con una chiesa del 1200 sullo sfondo. Siamo rimasti lì, sdraiati sul prato, incantati da quel silenzio etereo, religioso». La foto di copertina è di Nicolas Hermann.
sabato 6 ottobre 2018
Claudio Filippini Trio: “Before The Wind” [CAM Jazz, 2018]
Il trio capitanato da Claudio Filippini, completato da Luca Bulgarelli al contrabbasso e Marcello Di Leonardo alla batteria, torna a incidere per la CAM Jazz del produttore Ermanno Basso dopo i precedenti “The Enchanted Garden” del 2011 e “Squaring The Circle” del 2015. Nel programma di “Before The Wind” troviamo nove originali che evidenziano la decisa vena melodica di cui è capace la penna di Filippini, il quale costruisce scenari sonori dalla fitta notazione, dove ogni componente del trio contribuisce con interventi e frasi sempre funzionali al dialogo d’insieme. Ne deriva un lavoro dal profondo scavo espressivo, complesso quanto immediato e leggibile, in equilibrio tra misura e irruenza, dove incontriamo anche brani dal forte senso evocativo, come Forever. La foto di copertina, firmata da Elisa Caldana, ritrae il trio in una cava vicino a Maniago (PN).
lunedì 1 ottobre 2018
S.D.B. Project: “Red & Blue” [Improvvisatore Involontario, 2018]
Si apre con una traccia dalla tenue linea melodica, dal titolo Fiordi, il nuovo lavoro del contrabbassista Simone Di Benedetto, per l’occasione affiancato da Achille Succi al contralto e al clarinetto basso, Giulio Stermieri al pianoforte e Andrea Buriani alla batteria. Una linea che poi si increspa, diventa zigzagante e sfuggente, e che si rileva decisiva nel mettere in luce il contrasto formale che segnerà il resto della scaletta. Di Benedetto firma tutti i brani, fatta eccezione per la rilettura di Vashkar, di Carla Bley, e trova nelle “voci” di Succi e Stermieri delle valide soluzioni d’alternanza espressiva. Meritevoli di sottolineatura risultano alcuni passaggi in solo del leader, come l’intima introduzione di Just Say It, traccia dalle note diradate, dove il quartetto mette insieme uno scenario umorale introspettivo.
lunedì 24 settembre 2018
Walter Prati – Sergio Armaroli: “Close (Your) Eyes Open Your Mind” [Dodicilune, 2018]
Basso, violoncello, percussioni ed elettronica sono gli ingredienti base della formula messa a reagire da Sergio Armaroli e Walter Prati, artisti che si muovono nei territori dello sperimentalismo con estrema destrezza e dedizione. Il loro album licenziato da Dodicilune è un invito, già dal titolo, all’ascolto “aperto” e senza pregiudizi, nel quale si susseguono cinque passaggi dalla forma mutevole, e dove si incontrano piani sonori magmatici, capaci di estendersi, con elasticità creativa, da silenzi rarefatti a densità di notazione, tra discese oblique a improvvise impennate di umori. Il loro è un processo che trova la propria spina dorsale nell’improvvisazione, sempre funzionale all’estetica d’insieme, e in dialoghi a volte volontariamente incoerenti, che generano dicotomie timbriche o passaggi idealmente sovrapponibili, per un amalgama dal fascino ancestrale.
giovedì 13 settembre 2018
Frank Martino Disorgan Trio: “Level 2 Chaotic Swing” [Auand, 2018]
Edito da Auand “Level 2 Chaotic Swing” è l’album che fotografa il momento creativo del Disorgan Trio, realtà nata dalle idee del chitarrista Frank Martino che si avvale in line up della presenza di Claudio Vignali (pianoforte, Fender Rhodes, synth) e Niccolò Romanin (batteria, drum machine, synth). Il loro è un suono sviluppato attraverso un lungo periodo di sperimentazione, durante il quale l’elettronica è entrata a far parte di un arco espressivo vario e dal deciso impatto estetico, come lo stesso Martino ci ha illustrato.
Come è nata e si è evoluta la collaborazione tra i musicisti del Disorgan Trio?
Io e Claudio Vignali siamo cresciuti musicalmente insieme, ci conosciamo dai tempi del Conservatorio, mentre ho iniziato a suonare con Niccòlò Romanin in tempi più recenti. La passione per la formazione classica dell’organ trio mi ha portato, nel 2015, a proporgli una collaborazione di quello stampo, anche se fin dalla prima prova abbiamo capito che sarebbe andata diversamente. Nel tempo, i bassi dell’Hammond sono stati sostituiti dal basso synth e l’organo da pianoforte e Fender Rhodes, la batteria è stata implementata con la drum machine e ho iniziato a usare la chitarra otto corde al posto della sei, oltre che a campionare il piano, filtrandolo poi attraverso la mia catena di effetti. “Disorgan” mi sembrava l’appellativo più appropriato.
La Auand del produttore Marco Valente è l’etichetta con la quale avete inciso l’album “Level 2 Chaotic Swing”. Quando avete avuto la sensazione che si trattasse del momento giusto per entrare in studio?
In questi tre anni abbiamo sperimentato varie soluzioni, dall'improvvisazione radicale a jazz standard e musica più strutturata, testando anche diversi tipi di strumentazione, soprattutto nel cercare di integrare il sound elettronico. Da settembre 2017 abbiamo riordinato il materiale e iniziato a fare un lavoro approfondito sull’arrangiamento di tanti brani che avevamo a disposizione, registrato tutta la pre-produzione e poi a gennaio di quest’anno abbiamo messo a punto il repertorio per il disco.
Qual è la caratteristica principale del vostro suono?
Lavoriamo molto sul rendere il suono “da studio” il più vicino possibile a quello “da live”, con le dovute differenze. Quando si inserisce l’elettronica non è sempre facile e il rischio “sovraincisione di cento tracce” è sempre dietro l’angolo; dunque, investire tanto tempo sulla produzione è stato fondamentale per capire come organizzare tutte le possibilità in modo funzionale all’impatto dal vivo. Inoltre, il fatto che i ruoli all’interno del trio siano divisi in modo molto specifico ci permette di avere un’ampia varietà di colori da poter utilizzare alternativamente o contemporaneamente; a volte potremmo sembrare un sestetto.
Avevate un obiettivo espressivo da raggiungere?
Non ne abbiamo mai parlato esplicitamente, ma sicuramente l’idea prevedeva di realizzare una sintesi dei suoni e degli ambienti lavorati negli anni passati. Ci siamo concentrati molto sull’aspetto compositivo e dell’arrangiamento, limitando leggermente le parti solistiche, a cui lasciamo invece tanto spazio nei concerti. Il trio però è in costante movimento e stiamo già lavorando su materiale nuovo che inseriremo nei live; il bisogno di ricercare sempre soluzioni diverse dalle precedenti rende totalmente imprevedibile la direzione che potrebbe prendere il prossimo disco. Dunque l’obiettivo espressivo condiviso sicuramente è presente, ma il processo con cui si sviluppa risiede nel nostro subconscio.
Nelle note di copertina Enrico Bettinello fa riferimento all’imprevedibilità dello sviluppo estetico e formale delle tracce in scaletta. Come si sviluppa il percorso creativo e d’improvvisazione del trio?
Pur essendo coordinato da me, il Disorgan Trio è un gruppo vero e proprio, in cui ognuno porta il suo contributo e propone possibili direzioni. “Level 2 Chaotic Swing” è partito quasi interamente da idee mie, ma si trattava per lo più di bozze o temi ancora non interamente definiti. L’apporto di Claudio e Niccolò è stato fondamentale a livello di sviluppo, sound e arrangiamento, che abbiamo lavorato e prodotto insieme durante i primi mesi. Gli ambienti su cui si svolgono le improvvisazioni sono solitamente realizzati partendo da cellule melodiche o ritmiche più o meno definite e sviluppate in gruppo. Ovviamente questo comporta un maggior numero di ore di prove, tentativi, discussioni e cambi di direzione, ma, nonostante la fatica, è l’approccio che preferisco, in quanto permette a ciascun elemento di contribuire alla musica in modo più naturale possibile. È una modalità molto “garage” e non tipicamente jazzistica, ma, se tutti i membri la condividono, contribuisce in modo decisivo all’affiatamento generale della band; e inevitabilmente tutto questo si riversa poi nella musica.
mercoledì 5 settembre 2018
Hank Roberts – Zeno De Rossi – Pasquale Mirra – Giorgio Pacorig - Filippo Vignato: “Pipe Dream” [CAM Jazz, 2018]
Esce per la CAM
Jazz “Pipe Dream”, l’album che vede l’incontro in studio tra Hank Roberts
(violoncello), Zeno De Rossi (batteria), Pasquale Mirra (vibrafono), Giorgio
Pacorig (pianoforte) e Filippo Vignato (trombone). Abbiamo chiesto al giovane
trombonista di illustrarci i tratti salienti di questa realizzazione dal
particolare assetto timbrico e dal profondo scavo espressivo, in equilibrio tra
lucenti melodie e passaggi immaginifici.
Il quintetto di “Pipe Dream” presenta una particolare organizzazione
timbrica. Come è nata la collaborazione tra di voi?
Tutto nasce da
un’idea di Zeno De Rossi, estimatore della musica di Hank Roberts da più di
trent’anni. Per affinità umana e musicale ha coinvolto Giorgio Pacorig e
Pasquale Mirra e successivamente anche me, per avere un’altra voce accanto al
violoncello, e mi sono subito entusiasmato. È poi diventato un progetto
collettivo e condiviso che ci sta dando molte soddisfazioni.
In che periodo vi siete frequentati e per quale motivo
avete pensato in seguito di incidere?
Nei primi mesi
del 2017 abbiamo lavorato al repertorio per qualche mese in quartetto senza
Hank, che vive a Brooklyn. Abbiamo trovato la complicità del Festival Jazz &Wine
of Peace di Cormons, che ci ha subito dato carta bianca per la première del
progetto, avvenuto a ottobre 2017. Una volta avuta questa possibilità, decidere
di andare in studio subito dopo è stata una naturale conseguenza, l’occasione
perfetta. La CamJazz, sempre alla ricerca di nuovi progetti, si è mostrata
interessata ed eccoci qui.
Come si è sviluppato il lavoro in studio?
Ognuno ha
contribuito con un paio di brani, portando ciascuno un pezzetto di sé e del
proprio universo e immaginando come adattarlo agli altri. Ne è risultato un
insieme di brani eterogeneo e ricco di diversità, che abbiamo arrangiato
insieme per adattarli alla strumentazione che è decisamente singolare, quasi
cameristica. Stefano Amerio di Artesuono si è preso cura del suono del disco,
riuscendo a riconsegnare fedelmente attraverso la registrazione quello che è il
sound della band.
Qual è il segno distintivo di questo album?
È prima di
tutto frutto di un incontro umano davvero meraviglioso. Ci diverte passare del
tempo insieme e questo si riflette nella musica. Fin da subito anche Hank si è
inserito con grande spirito in questo mood, il che ha favorito il lavoro
collettivo e la condivisione di una visione comune riguardo al progetto.
Il titolo e l’artwork di copertina hanno un
particolare significato?
“Pipe Dream”
significa letteralmente Sogno impossibile.
Hank e Zeno si conobbero a Verona più di venticinque anni fa, Zeno era già un
fan della sua musica e si sono tenuti sempre più o meno in contatto. Mettere in
piedi un gruppo con lui è sempre stato uno dei suoi sogni - se non impossibile
- molto complesso da realizzare per ovvi motivi logistici. Ora si è realizzato,
ma rimane sempre un Pipe Dream. Il
riferimento, inoltre, è ai sogni di ognuno di noi, al non abbandonarli ma
coltivarli e prendersene cura. Le immagini di Francesco Chiacchio non potevano
essere più adatte per accompagnare la nostra musica, che usiamo per rendere
vivi i nostri sogni più intimi.
venerdì 10 agosto 2018
Convergenze Parallele: “Chi tene ‘O mare” [Dodicilune, 2018]
«Ci siamo sforzati di vivere ed interpretare i suoi brani in una ottica diversa, la stessa che nel jazz viene usata per trattare grandi capolavori che resteranno nella storia della musica». Con queste premesse il quartetto Convergenze Parallele rende un sentito omaggio alla figura e alla musica di Pino Daniele, del quale sono rivisitate nove autentiche gemme. Tra passaggi carichi di dramma a situazioni cantabili, il quartetto mostra un'estrema duttilità espressiva, misura timbrica e raro buon gusto d’arrangiamento. Al centro del progetto troviamo la voce più che mai messa a fuoco di Emilia Zamuner, uno dei talenti più brillanti del panorama italiano, al fianco della quale si muovono Paolo Zamuner, che alterna pianoforte e Fender Rhodes, Lorenzo Scipioni al contrabbasso e Michele Sperandio alla batteria. Un classico jazz quartet, arricchito in alcuni brani da Pablo Corradini al bandoneon e Domenico Vellucci al sassofono, capace di disegnare uno scenario di intensi standard.
giovedì 9 agosto 2018
Intuition Quartet: “Next” [Dodicilune, 2018]
Fatta eccezione per la rivisitazione di Smile, di Charlie Chaplin, la scaletta di “Next” si compone di soli brani originali firmati dal chitarrista boliviano Luis Pablo Prioretti, al fianco del quale troviamo Andrea Sabbiniani ai sassofoni, Paolo Della Mora al basso elettrico e Roberto Bisello alla batteria. La loro è una proposta che oscilla tra sonorità elettriche e acustiche, con temi cantabili che variano tra situazioni pensose a passaggi dal maggiore impatto ritmico. Le diverse “voci” espressive del quartetto rendono un personale sound d’insieme, a brevi tratti riferibile alla fusion comunemente intesa, e dalla profonda sensibilità melodica. L’immagine di copertina è firmata da Nadine Alfonso.
mercoledì 8 agosto 2018
Roberto Bartoli: “Landscapes” [Dodicilune, 2018]
Nella sua lunga nota di copertina il contrabbassista e compositore Roberto Bartoli racconta i motivi che lo hanno portato all’incisione di “Landscapes”: «Si tratta di un lavoro autobiografico, una raccolta di appunti e composizioni che coprono un arco temporale piuttosto lungo: schizzi diversi e distanti tra loro, ma volutamente accostati, perché ciascuno di essi rappresenta un tassello importante che concorre alla visione complessiva del luogo e del tempo in cui vivo». Al suo fianco troviamo Achille Succi al clarinetto basso, Stefano Bedetti al tenore, Daniele Santimone, che alterna chitarra classica e acustica, e Stefano Nanni al pianoforte, per un quintetto capace di muoversi in vari territori stilistici accomunati dalla cantabilità melodica dei temi. In aperura ascoltiamo un sentito omaggio a Pier Paolo Pasolini dal titolo The Ballad Of The Blood Stained Sea, che ben introduce il mood chiaroscurale, a volte malinconico, che si ritrova nel corso della scaletta. A completare il quadro troviamo rivisitazioni dal repertorio di Charlie Haden, Our Spanish Love Song e Spiritual, e Je me suis fait tout petit di Brassens, dove è proposto uno splendido intreccio tra le corde di Bartoli e Santimone.
venerdì 27 luglio 2018
Massimo De Mattia – Giorgio Pacorig - Giovanni Maier – Stefano Giust: “Desidero vedere, sento” [Setola di Maiale, 2018]
Ripresi dal vivo al Teatro San Leonardo di Bologna, l’11 ottobre 2016, Massimo De Mattia (flauto), Giorgio Pacorig (pianoforte), Giovanni Maier (contrabbasso) e Stefano Giust (batteria) danno forma a una sorta di lunga suite, divisa in cinque brani, dentro la quale mettono a reagire la loro voglia di sperimentazione e di capacità dallo spirito avanguardistico. Il quartetto avanza cambiando spesso algoritmo compositivo: da lente addizioni di suoni, che poi diventano melodie lineari, a improvvise destrutturazioni operate per sottrazione, improvvisa e repentina. Costruzione e distruzione, accelerazioni e inattesi stop, per un insieme sonoro vivo, multiforme e spettacolarmente estremo.