Nel cartellone del Bologna Jazz Festival 2018, rassegna che anche quest’anno si conferma ai vertici dell’agenda jazzistica europea con un’edizione dedicata alle grandi orchestre, spicca l’appuntamento, fissato per sabato 3 novembre presso l’Unipol Auditorium di Bologna, con David Murray e la Tower Jazz Composers Orchestra, l’ensemble residente del prestigioso Jazz Club Ferrara. Artisti che non hanno mai suonato insieme e che daranno vita a una produzione originale che vivrà sul senso dell’inatteso, sia dal punto di vista espressivo sia formale. Per l’occasione abbiamo raggiunto Piero Bittolo Bon e Alfonso Santimone, i compositori e direttori della Tower Jazz Composers Orchestra, che ci hanno raccontato della loro realtà e di come approcceranno l’imminente concerto
Quando e come è nato il progetto della Tower Jazz Composers Orchestra?
PBB: Nel 2015 il Jazz Club Ferrara ha messo a disposizione lo spazio del Torrione San Giovanni per l’organizzazione di un workshop sull’improvvisazione e i repertori meno battuti del jazz intitolato “The Unreal Book”, curato da me e Alfonso Santimone. Visto il successo dell’operazione e la qualità dei musicisti coinvolti, abbiamo pensato di consolidare un nucleo di partecipanti al seminario in una piccola orchestra embrionale, che si è fatta le ossa calcando il palco del Torrione in un paio di occasioni. Da lì a espandere il gruppo a una formazione più simile a quella di una big band il passo è stato breve, una volta integrate le fila con alcuni tra i più interessanti giovani musicisti dell'area emiliana e non solo: nella TJCO militano e hanno militato friulani, toscani, veneti, marchigiani e un danese! Il club ha dato il suo entusiastico appoggio all’idea di una residenza a cadenza mensile, e sono ormai tre anni che il progetto va felicemente avanti.
Come si sviluppano le idee all’interno dell’orchestra?
AS: La caratteristica della TJCO è di essere un progetto “orizzontale”, ogni musicista ha la possibilità di proporre una composizione o l’arrangiamento di un brano altrui. Naturalmente i più esperti tra noi hanno facoltà di dare consigli in merito alla scrittura, all'orchestrazione e a tutti i vari parametri della composizione. I musicisti sono parte di un’articolata rete di giovani, e meno giovani, improvvisatori che animano le scene delle aree comprese tra Livorno e Trieste. La scelta dei musicisti non è quindi operata con un meccanismo di reclutamento “centralizzato”. Spesso tutto avviene con una dinamica simile alla reazione a catena!
Qual è il fine artistico di questa realtà?
PBB: L’orchestra nasce come un laboratorio, e i propositi non sono cambiati. Tutti i membri della TJCO hanno la possibilità di dirigere e contribuire al repertorio – che ormai dopo tre anni di attività è un corpus davvero voluminoso - con brani originali o arrangiamenti. Si tratta di un’opportunità più unica che rara per un giovane musicista interessato a confrontarsi con la scrittura per largo organico e con le problematiche musicali, logistiche e - alle volte - umane che ne possono derivare. La più grande difficoltà nel coordinare questo organico, e allo stesso il più grande stimolo, sta nel dare coerenza a livello di direzione musicale a un repertorio scritto da così tante penne diverse.
AS: La TJCO è sempre più un laboratorio impegnato in un lavoro di sviluppo della tradizione della big-band di matrice jazzistica. Molto spesso la scrittura si allontana dall’idioma più "classico" o vi si riferisce in modo obliquo e stimolante. Sicuramente Piero e io, in qualità di direttori artistici del progetto, spingiamo a sperimentare il più possibile evitando la logica del compito di arrangiamento da conservatorio. È essenziale conoscere la grande tradizione della big-band e dominarne le tecniche, ma per rispettare la tradizione significa svilupparla, rischiare, aprirsi agli stimoli artistici a trecentosessanta gradi, cercare di dire qualcosa di autentico e personale esattamente come ci hanno insegnato tutti i grandi maestri che hanno fatto della big-band il centro della loro ricerca.
Per il prossimo concerto che vi vedrà protagonisti insieme a David Murray avete pensato a qualcosa di particolare?
AS: Ho appena concluso l’arrangiamento di un mio vecchio “classico”, una specie di maelstrom dal sapore blues. Qualcosa che fa parte del mio percorso di ricerca sulla metrica policentrica, su un approccio eterofonico all’armonia e sullo sviluppo di questi aspetti nelle figurazioni melodiche, il tutto facendo cortocircuitare la forma, quasi occultata, della composizione con gli spazi improvvisativi. Ho realizzato questo arrangiamento appositamente per questa occasione. Immagino che sia un mare navigabile dal linguaggio sanguigno di David Murray, che è stato uno dei miei “eroi” quando ero adolescente. Vedremo cosa verrà fuori! In caso le prove si complicassero troppo, abbiamo un repertorio di composizioni e arrangiamenti originali molto vasto cui attingere.
Come pensate di organizzare la scaletta?
PBB: Suoneremo in prevalenza brani scritti e arrangiati dallo stesso Murray, più qualche nostro classico e un paio di novità che lo vedranno impegnato comunque come solista.
Cosa vi aspettate da questa esperienza?
AS: Di maturare idee nuove, di condividere la musica con gli amici di sempre e con David Murray dal quale sicuramente trarremo molta ispirazione per il futuro. Dalle tante occasioni che ho fortunatamente avuto di confrontarmi con musicisti che sono parte della grande tradizione del jazz americano, alcuni dei quali avevano l’età dei miei nonni o anche più, sono sempre uscito rinnovato, arricchito e con tante strade aperte davanti a me da poter esplorare. Spero che ci succeda anche questa volta e immagino che per i tanti musicisti ventenni che sono parte di TJCO sarà un’esperienza elettrizzante!
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lunedì 29 ottobre 2018
Keith Jarrett: “La Fenice” [ECM, 2018]
Ramificazioni blues; spaccati di boogie-woogie; una “The Sun Whose Rays” di struggente bellezza melodica, incline a un pianismo classico dall’elevato tasso espressivo; ampie pagine di improvvisazione – compresa una traccia di apertura di quasi venti minuti -, che mostrano nervi tesi, angolature improvvise, ma anche ellissi logiche e idee cantabili; una versione trascendentale di “Stella By Starlight” e una innumerevole serie di spunti di riflessione per un ascolto totale e avvolgente. Questo e molto altro è racchiuso nel doppio album “La Fenice”, nel quale Keith Jarrett si produce nell’arte del piano solo e del suo multiforme mondo estetico, essenziale e denso, sottinteso ed esplicito.
mercoledì 24 ottobre 2018
Roberto Negro: “Kings And Bastards” [CAM Jazz, 2018]
Al suo primo album in pianoforte solo Roberto Negro, nato a Torino ma cresciuto a Kinshasa e da venti anni di stanza in Francia, presenta una scaletta di tredici tracce che, nel loro insieme, presentano diversi spunti d’interesse, sia formali sia espressivi. Negro propone un pianismo che, tra scrittura e improvvisazione, spazia da situazioni che richiamano il mondo accademico a brani di estrema contemporaneità, segnati dall’utilizzo di componenti elettroniche e da un misurato, quanto azzeccato e decisivo, lavoro di post produzione. “Kings And Bastards” è una raccolta di idee sviluppate tra studio di registrazione, sessioni sul pianoforte di casa e live performonce, che abbracciano le trasparenze della ambient music, lo sperimentalismo d’avanguardia, elementi afrocentrici e un buon gusto per l’ibridazione di suoni e sensazioni che a ogni passaggio rivelano nuovi colori.
domenica 21 ottobre 2018
Camilla Battaglia: “EMIT: Rotator Tenet” [Dodicilune, 2018]
Michele Tino al sassofono contralto, Andrea Lombardini al basso elettrico, Bernardo Guerra alla batteria, e l’ospite Ambrose Akinmusire alla tromba, accompagnano la cantante e compositrice Camilla Battaglia nel suo nuovo lavoro “EMIT: RotatoR TeneT” (Dodicilune, 2018). Si tratta di un album basato sul concetto di “tempo”, che dà seguito al precedente “Tomorrow - 2 More Rows Of Tomorrow” (Dodiclune, 2016) e dove Camilla Battaglia conferma la sua originalità espressiva, tra melodie cantabili, forme inusuali e una buona dose di sperimentazione
Al centro di questo lavoro c’è il “concetto di tempo”, come del resto era accaduto nel precedente “Tomorrow-2more Rows Of Tomorrows” (Dodicilune, 2016). Quali sono delle differenze tra i due album? Il Tempo è sicuramente un aspetto della nostra esistenza e della realtà - e contemporaneamente della musica - che mi affascina grandemente, anche se sono già alla ricerca di un altro parametro che possa ispirare la musica, così da smettere di annoiare tutti con questa “fissazione”. Nella musica di “Tomorrow” il tempo era descritto con un taglio personale. Si trattava di una prospettiva soggettiva su percezioni relative a esperienze personali che mi facevano interrogare sulla natura di questo grande contenitore: i fusi orari, le distanze (spazio-tempo), il valore che assegniamo alle esperienze (quantità-qualità), il divenire delle cose, l’evoluzione dei rapporti e delle peculiarità degli affetti. “EMIT: Rotator Tenet” è invece un percorso più oggettivo, la rappresentazione in musica di teorie scientifiche che ipotizzano l’esistenza di realtà molteplici che convivono in tempi e spazi diversi, annullando la nostra concezione di “passato-presente-futuro”. Direi che il trait d’union potrebbe essere rappresentato dal celebre aforisma di Albert Einstein che dice: «Quando un uomo siede vicino a una ragazza carina per un’ora, sembra che sia passato un minuto. Ma fatelo sedere su una stufa accesa per un minuto e gli sembrerà più lungo di qualsiasi ora. Questa è la relatività». Sono partita da esperienze personali e soggettive per interessarmene poi da un punto di vista più specifico e universale.
I tuoi interessi extra musicali, come letteratura e filosofia, in che modo entrano nelle composizioni? Lo spazio per la poesia occupato nelle composizioni è per me un’esigenza espressiva imprescindibile. Malgrado la realtà possa essere inquadrata dalla scienza per quello che è oltre alla nostra percezione, trovo sempre grande ispirazione e conforto nella coscienza universale contenuta nei versi dei poeti o nelle speculazioni dei filosofi. Ritrovo in questo bacino di immagini, parole e domande la stessa forza verso la ricerca della verità e di ciò che sta al di là dell’ovvio che si possono ritrovare nei risultati delle ricerche scientifiche.
La scelta di Ambrose Akinmusire come ospite del disco è una dettata da uno specifico motivo? Ambrose rappresenta per me un’icona assoluta di ricerca in campo artistico. Uno strumentista con un suono unico e personale. Un’artista sensibile che non smette mai di chiedersi che cosa ci sia dopo o al di là di quello che ha già sperimentato. Ambrose è a mio avviso - e non solo mio, direi - una delle voci più forti della scena contemporanea sia come improvvisatore che come compositore ed è stato il rispetto assoluto verso la sua statura artistica a sancire la nostra collaborazione.
Dopo un inizio di percorso artistico caratterizzato dall’interpretazione di standard sta emergendo preponderante la tua voglia di sperimentazione. In tal senso, hai delle prassi che segui, un’idea di base, un concetto dal quale poi tutto si sviluppa? Sono grata del mio percorso. La musica ha sempre fatto parte della mia vita e ho incontrato moltissime persone che hanno di volta in volta messo in discussioni le mie certezze, spingendomi a essere costantemente curiosa. Per me la musica è ricerca: ricerca di compositori, musicisti, perfomer in diversi ambiti artistici; ricerca di significato (trovare sempre un motivo valido almeno al 60% che risponda alla domanda: perché fare musica?); ricerca sul suono; ricerca sulle parole, direttamente connessa alla natura privilegiata del mio strumento che così direttamente può esprimere un messaggio.
Perché canti scalza? Stare a piedi nudi è sempre stata un’abitudine confortevole, disprezzata nell’infanzia da tutta la famiglia all’unanimità. Cantare a piedi nudi per me è un incentivo per connettere senza filtri tutti gli elementi con cui lavoro come performer: testa (testo, messaggio, idee), pancia (suono, volume, intenzione) e terreno (esistenza e rappresentazione fisica del messaggio).
Al centro di questo lavoro c’è il “concetto di tempo”, come del resto era accaduto nel precedente “Tomorrow-2more Rows Of Tomorrows” (Dodicilune, 2016). Quali sono delle differenze tra i due album? Il Tempo è sicuramente un aspetto della nostra esistenza e della realtà - e contemporaneamente della musica - che mi affascina grandemente, anche se sono già alla ricerca di un altro parametro che possa ispirare la musica, così da smettere di annoiare tutti con questa “fissazione”. Nella musica di “Tomorrow” il tempo era descritto con un taglio personale. Si trattava di una prospettiva soggettiva su percezioni relative a esperienze personali che mi facevano interrogare sulla natura di questo grande contenitore: i fusi orari, le distanze (spazio-tempo), il valore che assegniamo alle esperienze (quantità-qualità), il divenire delle cose, l’evoluzione dei rapporti e delle peculiarità degli affetti. “EMIT: Rotator Tenet” è invece un percorso più oggettivo, la rappresentazione in musica di teorie scientifiche che ipotizzano l’esistenza di realtà molteplici che convivono in tempi e spazi diversi, annullando la nostra concezione di “passato-presente-futuro”. Direi che il trait d’union potrebbe essere rappresentato dal celebre aforisma di Albert Einstein che dice: «Quando un uomo siede vicino a una ragazza carina per un’ora, sembra che sia passato un minuto. Ma fatelo sedere su una stufa accesa per un minuto e gli sembrerà più lungo di qualsiasi ora. Questa è la relatività». Sono partita da esperienze personali e soggettive per interessarmene poi da un punto di vista più specifico e universale.
I tuoi interessi extra musicali, come letteratura e filosofia, in che modo entrano nelle composizioni? Lo spazio per la poesia occupato nelle composizioni è per me un’esigenza espressiva imprescindibile. Malgrado la realtà possa essere inquadrata dalla scienza per quello che è oltre alla nostra percezione, trovo sempre grande ispirazione e conforto nella coscienza universale contenuta nei versi dei poeti o nelle speculazioni dei filosofi. Ritrovo in questo bacino di immagini, parole e domande la stessa forza verso la ricerca della verità e di ciò che sta al di là dell’ovvio che si possono ritrovare nei risultati delle ricerche scientifiche.
La scelta di Ambrose Akinmusire come ospite del disco è una dettata da uno specifico motivo? Ambrose rappresenta per me un’icona assoluta di ricerca in campo artistico. Uno strumentista con un suono unico e personale. Un’artista sensibile che non smette mai di chiedersi che cosa ci sia dopo o al di là di quello che ha già sperimentato. Ambrose è a mio avviso - e non solo mio, direi - una delle voci più forti della scena contemporanea sia come improvvisatore che come compositore ed è stato il rispetto assoluto verso la sua statura artistica a sancire la nostra collaborazione.
Dopo un inizio di percorso artistico caratterizzato dall’interpretazione di standard sta emergendo preponderante la tua voglia di sperimentazione. In tal senso, hai delle prassi che segui, un’idea di base, un concetto dal quale poi tutto si sviluppa? Sono grata del mio percorso. La musica ha sempre fatto parte della mia vita e ho incontrato moltissime persone che hanno di volta in volta messo in discussioni le mie certezze, spingendomi a essere costantemente curiosa. Per me la musica è ricerca: ricerca di compositori, musicisti, perfomer in diversi ambiti artistici; ricerca di significato (trovare sempre un motivo valido almeno al 60% che risponda alla domanda: perché fare musica?); ricerca sul suono; ricerca sulle parole, direttamente connessa alla natura privilegiata del mio strumento che così direttamente può esprimere un messaggio.
Perché canti scalza? Stare a piedi nudi è sempre stata un’abitudine confortevole, disprezzata nell’infanzia da tutta la famiglia all’unanimità. Cantare a piedi nudi per me è un incentivo per connettere senza filtri tutti gli elementi con cui lavoro come performer: testa (testo, messaggio, idee), pancia (suono, volume, intenzione) e terreno (esistenza e rappresentazione fisica del messaggio).
martedì 16 ottobre 2018
Bud Powell Jazz Orchestra: “Dedalo” [Maglie Jazz, 2018]
Prodotto dall’Associazione Culturale Jazz Bud Powell di Maglie, in provincia di Lecce, e Antonella Chionna, “Dedalo” è l’album che testimonia l’impegno e la passione dell’orchestra che fa riferimento a questa realtà. Le composizioni originali in scaletta e i relativi arrangiamenti sono firmati dal direttore dell’orchestra Gabriele Di Franco, il quale nelle note di copertina sottolinea la forza di intenti dell’associazione: «[…] Che lottando, grazie agli utopistici ideali di noi soci, va avanti, ogni giorno, per il puro e semplice amore della musica». Uno stimolo forte dunque, che dà poi forma concreta a un sound dal grande respiro timbrico, emanato dei ventitré elementi in line up ai quali si aggiungono in alcuni brani Francesco Negro al pianoforte e Marcello Allulli al tenore. Tanti spunti di interesse per un ascolto che conosce melodie cantabili, riferimenti al repertorio mainstream del jazz orchestrale, e lampi di contemporaneità, soprattutto grazie agli interventi della chitarra elettrica di Giancarlo Del Vitto. Inoltre, nel booklet ogni brano è brevemente argomentato per comprenderne al meglio l’intenzione espressiva.
domenica 14 ottobre 2018
Marco Pacassoni: “Frank & Ruth” [Esordisco, 2018]
Quello realizzato dal vibrafonista e compositore Marco Pacassoni è un omaggio alla figura di Frank Zappa, ottenuto attraverso la rilettura di alcuni suoi celebri brani, ma è anche, e soprattutto, un focus su Ruth Underwood, percussionista per molti anni al fianco del Maestro di Baltimora e ingrediente fondamentale nella miscela del sound di matrice zappiana. Nell’album “Frank & Ruth” con Pacassoni troviamo i fedeli Enzo Bocciero al pianoforte e Lorenzo De Angeli al basso, e alcuni musicisti ospiti di gran rilievo come la cantante Petra Magoni, Gregory Hutchinson alla batteria e il chitarrista Alberto Lombardi, che si è anche occupato della produzione del disco. Ne abbiamo parlato con Marco Pacassoni
Dopo tre album basati su tracce originali cosa ti ha spinto verso la rilettura di un repertorio?
Sono stato scelto dal produttore francese Pierre Ruiz a rappresentare attraverso la musica di Frank Zappa il talento e la creatività della sua percussionista Ruth Underwood. Ho accettato subito e con tanto entusiasmo perché, studiandola e ascoltandola, ho scoperto molte similitudini con il mio modo di suonare, prendendola come stimolo e ispirazione nel mio approccio al vibrafono e marimba. L’idea principale era quella di esaltare con i miei strumenti l’estro e il talento di una percussionista rimasta sempre in ombra e poco considerata nella storia delle percussioni. Ritengo Ruth una musicista e performer fenomenale, e grazie a Pierre Ruiz ho scoperto un approccio ai miei strumenti molto creativo e tecnico con fondamentale importanza alla musicalità.
Come hai approcciato gli arrangiamenti dei brani?
È stato stimolante e interessante arrangiare i brani di Zappa mettendoci “del mio”, cercando di renderli ancor più originali e attuali attraverso piccole variazioni ritmiche e rimanendo sempre molto fedele alle melodie. Frank Zappa è patrimonio della musica e come la musica classica va rispettato. Ogni suo brano l’ho arrangiato esaltando il sound del vibrafono e della marimba, dando molto spazio anche al suono tradizionale della chitarra zappiana. Molto importante è stato il rispetto per la musica e le sue melodie, cercando di riarmonizzare delle parti e di cambiare con piccole variazioni le metriche per creare interesse diverso dal solito ascolto dei brani, attuando il mio modo di arrangiare che mi ha un po’ contraddistinto nei miei lavori originali molto contemporary jazz.
In scaletta c’è anche un brano originale dedicato a Ruth Underwood.
Mi sembrava giusto e bello comporre un brano originale dedicato alla protagonista del disco Ruth Underwood e prendendo spunto dal groove del brano Inca Roads di Frank ho voluto scrivere una nuova melodia e armonia esaltando e ripercorrendo l’estro di Ruth sia sul vibrafono sia sulla marimba.
Cosa ha questo lavoro incentrato sulla musica di Zappa di diverso dai tanti incentrati sulla sua musica?
Leggendo le tante recensioni arrivate da tutto il mondo, soprattutto da fanatici zappiani (che erano quelli che temevamo di più), centralizzare la musica di Zappa sui miei strumenti (vibrafono e marimba) è stata una scelta vincente, in quanto abbiamo esaltato strumenti fondamentali nella discografia di Zappa e poco rappresentati nei tanti tributi usciti in precedenza. Altra cosa diversa è la formazione ristretta a un quintetto con ospite, la talentuosa voce di Petra Magoni, su un brano, Planet Of Baritone Women che solo lei avrebbe potuto interpretare con meravigliosa bellezza.
Per quali caratteristiche hai scelto i musicisti ospiti?
Pierre ha voluto fortemente come produttore artistico il chitarrista Alberto Lombardi che ha curato il mix e mastering del disco. Alberto è un ottimo chitarrista e produttore che ha esaltato ogni sfumatura di ogni strumento creando un gran suono. La sua partecipazione anche come chitarrista ha rappresentato egregiamente anche la chitarra Zappiana, esprimendo con la sua creatività parti fondamentali nella riuscita degli arrangiamenti. Greg Hutchinson non ha bisogno certamente di presentazioni ed averlo avuto nella band è stato, a livello ritmico e musicale, un valore aggiunto. Petra Magoni è stata scelta come ospite perché, come dicevo prima, è l’unica cantante che poteva interpretare con il suo talento e estro compositivo/improvvisativo un brano tra i più difficili, vocalmente parlando, della discografia di Zappa e la ringrazio di cuore per aver partecipato con tanto entusiasmo alla realizzazione di Planet Of Baritone Women, curando gli arrangiamenti vocali del brano. Un grazie anche ai miei “inseparabili” Enzo Bocciero e Lorenzo De Angeli che attraverso il loro talento hanno interpretato partiture non semplici da eseguire. Vibrafono, marimba, chitarra, basso, batteria e voce… un mix perfetto.
Dopo tre album basati su tracce originali cosa ti ha spinto verso la rilettura di un repertorio?
Sono stato scelto dal produttore francese Pierre Ruiz a rappresentare attraverso la musica di Frank Zappa il talento e la creatività della sua percussionista Ruth Underwood. Ho accettato subito e con tanto entusiasmo perché, studiandola e ascoltandola, ho scoperto molte similitudini con il mio modo di suonare, prendendola come stimolo e ispirazione nel mio approccio al vibrafono e marimba. L’idea principale era quella di esaltare con i miei strumenti l’estro e il talento di una percussionista rimasta sempre in ombra e poco considerata nella storia delle percussioni. Ritengo Ruth una musicista e performer fenomenale, e grazie a Pierre Ruiz ho scoperto un approccio ai miei strumenti molto creativo e tecnico con fondamentale importanza alla musicalità.
Come hai approcciato gli arrangiamenti dei brani?
È stato stimolante e interessante arrangiare i brani di Zappa mettendoci “del mio”, cercando di renderli ancor più originali e attuali attraverso piccole variazioni ritmiche e rimanendo sempre molto fedele alle melodie. Frank Zappa è patrimonio della musica e come la musica classica va rispettato. Ogni suo brano l’ho arrangiato esaltando il sound del vibrafono e della marimba, dando molto spazio anche al suono tradizionale della chitarra zappiana. Molto importante è stato il rispetto per la musica e le sue melodie, cercando di riarmonizzare delle parti e di cambiare con piccole variazioni le metriche per creare interesse diverso dal solito ascolto dei brani, attuando il mio modo di arrangiare che mi ha un po’ contraddistinto nei miei lavori originali molto contemporary jazz.
Mi sembrava giusto e bello comporre un brano originale dedicato alla protagonista del disco Ruth Underwood e prendendo spunto dal groove del brano Inca Roads di Frank ho voluto scrivere una nuova melodia e armonia esaltando e ripercorrendo l’estro di Ruth sia sul vibrafono sia sulla marimba.
Cosa ha questo lavoro incentrato sulla musica di Zappa di diverso dai tanti incentrati sulla sua musica?
Leggendo le tante recensioni arrivate da tutto il mondo, soprattutto da fanatici zappiani (che erano quelli che temevamo di più), centralizzare la musica di Zappa sui miei strumenti (vibrafono e marimba) è stata una scelta vincente, in quanto abbiamo esaltato strumenti fondamentali nella discografia di Zappa e poco rappresentati nei tanti tributi usciti in precedenza. Altra cosa diversa è la formazione ristretta a un quintetto con ospite, la talentuosa voce di Petra Magoni, su un brano, Planet Of Baritone Women che solo lei avrebbe potuto interpretare con meravigliosa bellezza.
Per quali caratteristiche hai scelto i musicisti ospiti?
Pierre ha voluto fortemente come produttore artistico il chitarrista Alberto Lombardi che ha curato il mix e mastering del disco. Alberto è un ottimo chitarrista e produttore che ha esaltato ogni sfumatura di ogni strumento creando un gran suono. La sua partecipazione anche come chitarrista ha rappresentato egregiamente anche la chitarra Zappiana, esprimendo con la sua creatività parti fondamentali nella riuscita degli arrangiamenti. Greg Hutchinson non ha bisogno certamente di presentazioni ed averlo avuto nella band è stato, a livello ritmico e musicale, un valore aggiunto. Petra Magoni è stata scelta come ospite perché, come dicevo prima, è l’unica cantante che poteva interpretare con il suo talento e estro compositivo/improvvisativo un brano tra i più difficili, vocalmente parlando, della discografia di Zappa e la ringrazio di cuore per aver partecipato con tanto entusiasmo alla realizzazione di Planet Of Baritone Women, curando gli arrangiamenti vocali del brano. Un grazie anche ai miei “inseparabili” Enzo Bocciero e Lorenzo De Angeli che attraverso il loro talento hanno interpretato partiture non semplici da eseguire. Vibrafono, marimba, chitarra, basso, batteria e voce… un mix perfetto.
mercoledì 10 ottobre 2018
Pericopes: “What What” [Unit Records, 2018]
Con “What What” il duo Pericopes, composto dal sassofonista Emiliano Vernizzi, soprano e tenore, e dal pianista Alessandro Sgobbio, dà seguito a una duratura collaborazione che in oltre dieci anni ha prodotto sei lavori discografici. Le nove tracce proposte, tutte originali, emanano un sound leggibile e melodicamente cantabile, ma che devia spesso verso momenti intimi e introspettivi, con situazioni che si increspano, diventano esili o prossime alla trasparenza. C’è una filigrana di malinconia che lega buona parte di un insieme dal profondo scavo espressivo, costruito attraverso una solida intenzione, di forme, colori e atmosfere. Prima di arrivare nello studio di registrazione Artesuono di Stefano Amerio, il duo ha affinato le proprie idee tra Parigi, i tanti concerti e una particolare residenza artistica nel Monferrato, come Alessandro Sgobbio ci ha raccontato: «Eravamo nella piccola località di Moleto, che si raggiunge passando attraverso un magnifico vigneto circolare. Un luogo paradisiaco, immerso nel verde. Durante la giornata lavoravamo ai vari brani, per poi eseguirli, alla sera, davanti ad alcuni residenti della zona e qualche turista di passaggio. Durante il nostro ultimo giorno di permanenza, alcuni ragazzi del posto ci hanno invitato a visitare il “Bar Chiuso”, un (non) locale situato sulla sommità di una collinetta, dalla quale è possibile ammirare una vista mozzafiato sui vigneti del Monferrato, con una chiesa del 1200 sullo sfondo. Siamo rimasti lì, sdraiati sul prato, incantati da quel silenzio etereo, religioso». La foto di copertina è di Nicolas Hermann.
sabato 6 ottobre 2018
Claudio Filippini Trio: “Before The Wind” [CAM Jazz, 2018]
Il trio capitanato da Claudio Filippini, completato da Luca Bulgarelli al contrabbasso e Marcello Di Leonardo alla batteria, torna a incidere per la CAM Jazz del produttore Ermanno Basso dopo i precedenti “The Enchanted Garden” del 2011 e “Squaring The Circle” del 2015. Nel programma di “Before The Wind” troviamo nove originali che evidenziano la decisa vena melodica di cui è capace la penna di Filippini, il quale costruisce scenari sonori dalla fitta notazione, dove ogni componente del trio contribuisce con interventi e frasi sempre funzionali al dialogo d’insieme. Ne deriva un lavoro dal profondo scavo espressivo, complesso quanto immediato e leggibile, in equilibrio tra misura e irruenza, dove incontriamo anche brani dal forte senso evocativo, come Forever. La foto di copertina, firmata da Elisa Caldana, ritrae il trio in una cava vicino a Maniago (PN).
lunedì 1 ottobre 2018
S.D.B. Project: “Red & Blue” [Improvvisatore Involontario, 2018]
Si apre con una traccia dalla tenue linea melodica, dal titolo Fiordi, il nuovo lavoro del contrabbassista Simone Di Benedetto, per l’occasione affiancato da Achille Succi al contralto e al clarinetto basso, Giulio Stermieri al pianoforte e Andrea Buriani alla batteria. Una linea che poi si increspa, diventa zigzagante e sfuggente, e che si rileva decisiva nel mettere in luce il contrasto formale che segnerà il resto della scaletta. Di Benedetto firma tutti i brani, fatta eccezione per la rilettura di Vashkar, di Carla Bley, e trova nelle “voci” di Succi e Stermieri delle valide soluzioni d’alternanza espressiva. Meritevoli di sottolineatura risultano alcuni passaggi in solo del leader, come l’intima introduzione di Just Say It, traccia dalle note diradate, dove il quartetto mette insieme uno scenario umorale introspettivo.