C’è la cantabilità melodica dei temi proposti al centro delle dinamiche espressive del trio capitanato dal pianista olandese Wolfert Brederode, completato da Gulli Gudmundsoon al contrabbasso e Jasper van Hulten alla batteria. Registrata nel luglio 2015, la scaletta prevede, fatto salvo per Conclusion firmata Gudmundsson, solo composizioni di Brederode, il quale pensa e costruisce una musica in costante equilibrio timbrico e fedele a un’estetica chiaroscurale e dettagliata. L’intero lavoro indaga ambientazioni di profonda liricità, con il suono di pianoforte protagonista discreto di un amalgama formale dove il rispetto dello spazio e del tempo risultano basilari.
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lunedì 25 luglio 2016
sabato 23 luglio 2016
Intervista a Sergio Armaroli e Giancarlo Schiaffini
Perché hai scelto di lavorare sul materiale di Christian Wolff e perché hai voluto Giancarlo Schiaffini come interprete?
Sergio Armaroli: Christian Wolff rappresenta un ideale punto di congiunzione tra la ricerca musicale inaugurata da John Cage, di cui è stato allievo, e l’improvvisazione intesa come traduzione sonora di un pensiero compositivo immanente, e urgente. Wolff elabora un materiale che deve essere condiviso dagli interpreti, compreso e assimilato nell’atto stesso dell’esecuzione, con tutte le “imperfezioni” che questo comporta. Giancarlo Schiaffini rappresenta un raro esempio di “pensiero in atto” che diviene suono, come direbbe Alipio Carvalho Neto; non posso, in questo senso dire di “aver scelto un interprete”, ma una volontà operante molto gentile, acuta e attenta. Mi spiego: solo attraverso alcuni “incontri preparatori”, fatti di qualche concerto insieme, poche parole, sguardi e brevissimi confronti, si è concretizzato, attorno a un materiale minimo come quello di Wolff, la possibilità di un dialogo e di un’esperienza per “realizzarne”, come dice Giancarlo, “una versione para-jazzistica”. Solo successivamente, come naturale conseguenza di ciò, abbiamo deciso insieme di lavorare sul materiale di sua composizione per improvvisatori in una sorta di “esercizio dialettico” dell’intelligenza.
Qual è la prima cosa che hai pensato quando ti è stato proposto questo lavoro?
Giancarlo Schiaffini: La prima considerazione positiva riguardo a questa proposta è legata alla persona di Sergio Armaroli che mi ha convito senza problemi. Con Sergio ho collaborato in alcuni concerti e in quelle occasioni ci siamo confrontati sul nostro lavoro musicale trovando una grande coincidenza di idee e di progettualità. Collaborare su Christian Wolff in una ottica “para-jazzistica” mi è sembrata un’idea molto stimolante. Avevo già in passato lavorato su alcune partiture di Wolff e ne avevo apprezzato l’intelligenza, la grande apertura e la possibilità di inserire l’improvvisazione in quei contesti. L’idea di Sergio di usare Microexercises, che, confesso, non conoscevo, mi è parsa molto adatta per una lettura da parte di musicisti che avessero frequentato il jazz, qualunque possa essere il significato di questa etichetta al giorno d’oggi. La mia opinione è che il jazz abbia diminuito il suo potere trainante già dalla fine degli anni Sessanta; ormai è praticamente diventato una sorta di accademia, per cui il variarne le prospettive rappresenta un processo decisamente rivitalizzante. Il fatto poi di lavorarci con Sergio e con Marcello Testa e Nicola Stranieri è stato un motivo ulteriore per affrontare questa impresa.
Quale è stato il rischio maggiore nel rileggere questo repertorio?
Sergio Armaroli: Il rischio, se di rischio si può parlare, è quello di trovarsi in una “terra di nessuno” ovvero in un non-luogo musicale, intendo questo da un punto di vista puramente istituzionale e di riconoscibilità critica. Il jazz oggi, o quello che viene identificato e nominato, come “jazz”, soprattutto in Italia, sembra, a mio modesto parere, molto conservatore e chiuso in un’idea di linguaggio museificato e privo di vitalità e di coraggio; dall’altra parte, la musica contemporanea di matrice euro-colta o quello che ne rimane, pare incapace di uscire dalle strette di un accademismo molto rigido, nonostante le buone intenzioni; allora, affrontare, da una parte, un autore come Wolff che si pone il problema del contesto reale, e di un fare musica insieme liberato, e, dall’altra, lavorare, come in un processo di affinità elettiva e di simpatia, sulla musica di Giancarlo Schiaffini pone in questione il fare musica al di fuori di schemi e di definizioni di comodo; questo processo può portare a uno spaesamento e a una “perdita del centro” anche per l’ascoltatore; ripeto: non è una sfida, ma, semmai, una necessità. Nella necessità non c’è rischio perché si segue un’urgenza e dunque non può che essere un incontro felice. Con Giancarlo mi impegno a non chiamarlo jazz e aggiungo: nella tragicommedia dell’ascolto e alla ricerca del suono significante…
Uno dei due CD è basato su tue composizioni. Ce ne vuoi parlare?
Giancarlo Schiaffini: Sergio mi ha chiesto di portare qualche brano nella sessione di registrazione che potesse inserirsi nel discorso generale. Ho acconsentito molto volentieri e ho scelto alcune composizioni pensate per un gruppo di improvvisatori. Questi brani, più che sulle note scritte, che comunque compaiono con una certa parsimonia, si basano sulle relazioni fra gli esecutori, su indicazioni di atmosfere musicali, e su micro-temi, e qui c’è qualche coerenza con l’opera di Wolff, da sviluppare con grande libertà. In definitiva si tratta di strutture, a volte stabilite e a volte risultanti dall’esecuzione, che suggeriscono soluzioni e consentono agli esecutori di usare la loro inventiva per creare un discorso musicale condiviso.
Come si pone questo lavoro nel tuo percorso di ricerca artistica?
Sergio Armaroli: Personalmente devo dichiarare un debito di riconoscenza nei confronti di Giancarlo Schiaffini e di quello che rappresenta per la musica; un musicista pensante che rappresenta un modello di metodo e di pratica. Voglio dire: il vero virtuosismo è quello della mente e dei processi che siamo in grado di attivare attraverso il suono, e la qualità dei rapporti che siamo in grado di creare. È un processo umano, di dialogo e di ascolto. Se noi, nell’oggi, soffriamo di “autismo” è perché abbiamo perso memoria di un fare musica che in Giancarlo si materializza, anche, nella sua presenza. E questo mi rassicura e mi aiuta nel mio percorso di ricerca artistica che è molteplice, frammentato, come un “work in progress” intellettuale in maniera irregolare e non sistematica lasciando sempre aperte attese e prospettive. In questo viaggio sono accompagnato da due straordinari musicisti come Nicola Stranieri, batterista sensibilissimo e attento alle minime derive, e Marcello Testa al contrabbasso, per me sicuro approdo. Con loro, e insieme al sassofonista Claudio Guida, ho creato l’Axis Quartet con il quale ho cercato di circumnavigare il continente del jazz e la sua lingua che è meticcia ed euro-africana. Invece questo mio ultimo lavoro, o meglio, questo “esercizio”, rappresenta un passaggio al futuro, in quanto, senza problemi di carattere “filologico” la pratica degli “esercizi” è più sicura e libera.
Hai progetti per il futuro?
Giancarlo Schiaffini: Sono sempre tanti, e molti più di quello che si riesce a realizzare. Comunque sarebbe, sarà, senz’altro interessante e augurabile continuare la collaborazione con Sergio e con i suoi sodali. Continuerò comunque a progettare a zig-zag come ho sempre fatto, usando l’improvvisazione in senso strutturale, anche con l'uso di immagini, per raccontare storie, l'elettronica come strumento aggiuntivo, e quanto mi interesserà al momento.
venerdì 22 luglio 2016
Markus Stockhausen – Florian Weber: “Alba” [ECM, 2016]
Il trombettista Markus Stockhausen e il pianista Florian Weber arrivano alla prima incisione in duo dopo alcuni anni di frequentazione, durante i quali hanno affinato il loro interplay e la loro reciproca capacità di ascolto. Il linguaggio espressivo di “Alba” (ECM, 2016) si fonda sulla cantabilità melodica dei temi proposti, e si sviluppa su strutture ritmiche essenziali, mentre le atmosfere delle quindici tracce presenti nella scaletta, tutte originali, risultano pacate e spesso in equilibrio tra suono e silenzio. Brani strutturati si alternano a brevi momenti di improvvisazione, per un insieme timbrico cesellato, dal quale affiora eleganza e senso di riflessione.
giovedì 21 luglio 2016
Jack DeJohnette / Ravi Coltrane / Matthew Garrison: “In Movement” [ECM, 2016]
Registrato nell’ottobre 2015 agli Avatar Studios di New York City, “In Movement” testimonia l’incontro tra personalità musicali dall’elevato peso specifico e dalla profonda capacità espressiva come quelle di Jack DeJohnette, batteria e pianoforte, Ravi Coltrane, sassofoni tenore e soprano e Matthew Garrison, basso elettrico. Il trio arriva all’incisione forte di una rodata frequentazione, non solo musicale ma anche di vita, e dalle otto tracce proposte, tra le quali Alabama di John Coltrane, emerge una grande affinità d’intenti in un suono d’insieme fluido e pastoso. I brani si sviluppano attorno a delle radici melodiche spesso tradotte dai sassofoni di Coltrane, e le matrici ritmiche trovano nel basso elettrico di Garrison e nelle modalità di DeJohnette delle ambientazioni scure e cariche di groove. In copertina una foto di Woong-Chul An.
lunedì 18 luglio 2016
Tolfa Jazz Festival 2016 “Now! Orleans” – Tolfa 22, 23 e 24 luglio 2016
In programma a Tolfa dal 22 al 24 luglio il festival a ingresso gratuito propone musica e attività culturali di vario genere, dalla danza alla fotografia, in una cornice che coinvolge anche aspetti di enogastronomia, artigianato e sport
Il titolo di questa edizione del Tolfa Jazz Festival è “Now! Orleans”, con riferimento a New Orleans e alla tradizione jazzistica?ù
È un’edizione dedicata a New Orleans, ma questo non vuol dire che proponiamo del jazz tradizionale. La parola “Now!” vuole indicare la gratitudine per New Orleans, ma soprattutto una proposta di attualità, contestualizzata nello spirito di New Orleans. La nostra è una maniera di fare popolare e festosa, un aspetto che il jazz ha un po’abbandonato in questi ultimi anni. La vena principale di questa musica fa riferimento a situazioni popolari.
Che atmosfera si respira durante i giorni del festival? Una situazione popolare, con una musica attualizzata. Negli anni Settanta ebbi molti attriti per questi motivi, quando dicevo che l’etimologia della parola “festival” fa riferimento al termine “festa”. Il pubblico in tal senso è fondamentale, Tolfa poi è un posto bellissimo, ideale, né troppo grande né troppo piccolo, a “misura di jazz”, dove il pubblico si può godere appieno i concerti.
Come è costruito il programma? Abbiamo cercato proposte affini a questa idea di attualità, come il concerto di Simone Alessandrini, che vedrà ospite Francesco Bearzatti, un esponente del jazz dei giorni nostri. Poi c’è l’orchestra di Mario Corvini, un ottimo musicista e insegnante, che ha portato a crescere i suoi ragazzi a un livello professionale invidiabile, che faranno un omaggio alla mia musica. Nelle cose che ho fatto ho sempre cercato di essere contemporaneo, né moderno né tradizionale, sull’insegnamento di Duke Ellington, che era a favore di una musica attuale, fruibile giorno per giorno.
Un festival che apre anche a chi si avvicina per la prima volta al jazz? Il jazz non è un’unica cosa. Anche il neofita può venire a Tolfa e trovare un qualcosa di interessante per i suoi gusti. Del resto è questa la funzionalità culturale di un festival. Noi proponiamo indirizzi. Io sono un direttore artistico, ma riesco a mettermi dalla parte del pubblico. Io stesso vado a vedere i concerti e mi diverto o meno, “diverto” nel senso che c’è un qualcosa che mi intriga, mi interessa, mi appassiona e mi fa venire voglia di approfondire.
Negli anni state avendo degli ottimi riscontri. Il festival piace, ha preso piede e se ne parla. Sta crescendo sano, a vista d’occhio, un po’ come un bambino. Non abbiamo contributi particolari, tranne qualche sponsor che ci aiuta e qualcuno che si dà da fare. Otteniamo una realtà valida, che per noi è appagante.
Stai già pensando al futuro? Sì, perché nel marzo del 1967 ho firmato il mio primo lavoro per la radio dal titolo “Il disco di jazz ha cinquant’anni”, perché nel marzo 1917 veniva messo in circolazione il primo disco con la dicitura jass, con la doppia “s”, il famoso Livery Stable Blues della Original Dixieland Jass Band guidata da Nick La Rocca. Questa è la data ufficiale, è chiaro che il jazz è nato prima, ma si è preso il 1917 come riferimento comune. Spero l’anno prossimo di fare qualcosa di attinente al “Il disco di jazz ha cento anni”. È anche il caso di rivalutare Nick La Rocca, siciliano nato a New Orleans, che suonava la tromba e ha codificato i caposaldi del dixieland, con buona pace di chi sostiene il contrario. Ha inventato un linguaggio nuovo. Il jazz è poi diventato quello che sappiamo, ma il primo ad avere il coraggio di proporre un qualcosa di nuovo fu Nick La Rocca.
Tutte le informazioni su Tolfa Jazz: https://tolfajazz.com/