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giovedì 20 settembre 2012
The Crooked Fiddle Band: Overgrown Tales (Autoprodotto, 2012)
Non mancano di certo sotto il profilo dell’originalità gli australiani The Crooked Fiddle Band, al punto che anche Brian Eno ha avuto parole d’elegio per il loro particolare approccio stilistico. Un modo che trova il suo punto di forza espressivo nel violino di Jess Randall, dietro al quale agiscono gli altri tre elementi della band, che si dividono il compito d’impalcatura ritmico/armonica tra contrabbasso, batteria, chitarre, bouzouki e charango. Nel loro esordio “Overgrown Tales” (che segue un paio di Ep di riscaldamento) ci sono andamenti veloci e dai profumi balcanici (“Countness barthory’s Finishing School for Girls”) che si alternano a situazioni più compassate (“Clockwork Bride”) nelle quali predomina comunque il violino e le sue evoluzioni vertiginose, ipnotiche e prossime al delirio melodico. Si ha l’impressione di ascoltare la colonna sonora di una festa pagana, con tanto di sipario sciamanico (“The Mountain Hag’s Advice”) caratterizzato dalle voci e dal violoncello dell’ospite Russell Rolen, elemento aggiunto in un album di sicuro interesse.
Philippe Petit: Extraordinary Tales of a Lemon Girl – trilogy / Chapter Two: Fire-Walking to Wonderland (Aagoo Records, 2012)
“Extraordinary Tales of a Lemon Girl” è la trilogia ideata da Philippe Petit (ingranaggio fondamentale del progetto Strings of Consciousness) giunta al suo secondo capitolo con l’album “Fire-walking to Wonderland”, che segue il precedente “Oneiric Rings on Grey Velvet”. Si tratta di un lavoro che si sviluppa attraverso cinque parti (sono tutte prime take) dove regnano la libertà formale, l’atonalità ostinata, e una ricerca sonora che – a conti fatti – sembra portare per mano l’ascoltatore verso un territorio senza spazi definibili, né tempi quantificabili. Musica improvvisata, a volte astratta, costruita con l’utilizzo di una nutrita serie di strumenti (synths, turntables, processori) e non (palloni gonfiabili, registrazioni ambientali) che vanno a formare una sorta di colonna sonora della contemporaneità urbana, fatta di suoni slegati, stridenti e privi di coordinate stilistiche. Una matassa difficilmente districabile, che si crea tramite un continuo divenire, dove i piani sonori si accatastano con un rigoroso disordine melodico prossimo al caos. Ascolto non semplice ma intrigante per coloro in cerca di situazioni decisamente fuori dalle consuetudini.
Il sogno il veleno: Piccole catastrofi (Seahorse Recordings/Audioglobe, 2012)
“Piccole catastrofi” è il passo d’esordio de Il sogno il veleno, una proposta cantautorale dal sapore un po’ retrò che in questo lavoro racchiude dieci brani dall’anima cinematografica (il disco è dedicato a Pier Paolo Pasolini) e con un’intenzione dalle forti prerogative descrittive. La band trova il suo segno di riconoscimento nella voce di Alex Secone, il quale si muove su degli sfondi che sanno essere sognanti e trasparenti, come nella conclusiva “Comizi d’amore”, ma anche spensierati e carichi di melodia orecchiabile, come nella pop-oriented “Nouvelle Vague”. I ragazzi raggiungono il giusto equilibrio tra espressione e significati quando i toni si fanno più malinconici e vagamente eleganti (“Le cose importanti”); riescono a mettere insieme una buona varietà stilistica passando da situazioni fumose e introspettive (“Storia quasi d’amore”) ad altre più informali (“Paese sera”). Nell’album manca il singolo a presa rapida, capace di aumentare la cifra di attenzione verso questa realtà, ma probabilmente non era nelle loro strategie e in quelle del produttore Paolo Messere (ex Ulan Bator).
mercoledì 12 settembre 2012
Zulus: “Zulus” (Aagoo Records, 2012)
Otto brani, ventudue minuti, un’elevata cifra d’adrenalina pura. Sono questi i numeri di “Zulus”, l’omonimo disco della band di base a Brooklyn, capace di sviluppare un approccio alla materia musicale d’assalto, che potremmo etichettare come incrocio tra punk puro e post-hardcore. Roba per cuori forti, tanto per capirci. A cominciare da brani come “Tremolo”, in grado di minare profondamente qualsiasi tentativo di costruire una linea melodica amichevole. I ragazzi fanno leva su un andamento ritmico forsennato, testi visionari e assoluto divieto per un momento di silenzio. Trovano il loro orgasmo stilistico nella conclusiva “Death in the Current”, anche se i passaggi di tensione sono diversi e caratterizzano l’intera registrazione. Come nella tellurica “By Night and Spear”, passando per la scheggia impazzita “Blackout” e per “Kisses”, una sorta di manifesto punk, per via della sua espressività diretta e condita da suoni senza fronzoli. Gli Zulus non concedono time out per riflettere, né situazioni per prendere fiato. C’è solo da correre.
The Vindicators: Greatest Hits (Go Down Records, 2012)
Qualcuno si ricorderà dei Vindicators, band nata dallo scioglimento dei Frigidaire Tango, stilisticamente ispirata ai Fleshtones, in grado di dare alla luce un paio di album nella seconda metà degli anni Ottanta. Per tutti gli altri arriva il “Greatest Hits”, che raccoglie in due cd il meglio della loro produzione, quattro brani inediti e un live ripreso in varie location. Siamo in ambito rock, caratterizzato da andamenti ritmici sostenuti, originalità espressiva ottenuta grazie all’apporto dei fiati e una capacità di attenuare i toni per creare momenti più riflessivi, dal taglio cantautorale. La parte in studio conta su una scaletta di venti brani che si lasciano ascoltare senza fatica, poiché le linee melodiche sono costantemente in assonanza e prive di situazioni dalla chiave di lettura difficile. Musica che sa coinvolgere, e che nella parte registrata dal vivo (diciotto brani, con una qualità audio non levigata) assume connotazioni ancor più sanguigne e veritiere, capaci di riflettere la carica emotiva prodotta da Charlie Out Cazale e soci. Una buona riscoperta, lontana dalle tendenze ammiccanti e modaiole.
The Junction: Let Me Out! (Dischi Soviet Studio, 2012)
I The Junction (Marco Simioni, Francesco Reffo, Alberto Bettin) arrivano alla pubblicazione del loro primo album con ottime credenziali, accumulate con diverse date live, apparizioni radiofoniche ed EP. Il loro “Let me Out!” propone una formula stilistica semplice, ma efficace, nella quale si avverte netta l’influenza della scena punk di fine Settanta e il rock orientato verso Franz Ferdinand e derivati. Le undici tracce di questo lavoro sono giocate su ritmiche medio-veloci, ritornelli orecchiabili e inneschi melodici a presa rapida. Si tratta di musica dalla notevole cifra coinvolgitiva, vedi il potenziale singolo scala classifica “Mayday”, che in certi casi riesce ad esprimere anche un modo meno forsennato e più attento ai particolari, come in “Sleeping Dancer”, brano nel quale i ragazzi si lasciano apprezzare per il buon gusto compositivo. C’è da dire che il trio ha un ottimo feeling con la materia sonora, anche se ancora deve trovare la propria via per arrivare all’originalità.
sabato 8 settembre 2012
Rossopiceno: Come cambia il vento (Upr/Edel, 2012)
“Come cambia il vento” è il secondo album dei Rossopiceno, gruppo marchigiano che si è già messo in mostra per una serie di buone prestazioni live e collaborazioni di rilievo in ambito nazionale. Su tutte l’inserimento del loro brano “C’era” nel recente lavoro dei Modena City Ramblers (“Battaglione Alleato”), band con la quale Emidio Rossi (voce) e compagni sono idealmente legati sia da un’ispirazione stilistica marcata, ma anche oggettivamente, perché Francesco Moneti (violino dei MCR) ha curato la produzione di questo lavoro. Undici brani che trasudano rabbia, amore e voglia di ribellione, nei quali fanno la loro comparsa Ascanio Celestini con una lettura d’introduzione a “Camice e tute” e Marino Severini (Gang) che presta la sua voce nella title track. Brani che parlano la lingua del combat rock tricolore, partigiano, apertamente schierato e vagamente incazzato, giocato su tempi medio-veloci, testi impegnati che narrano difficoltà quotidiane, intrecci melodici coinvolgenti fatti di fisarmonica, flauto e chitarre. I ragazzi sanno dire la loro senza ricorrere alle maniere forti e senza urlare. Tutto lodevole, anche se poco originale.
Simone Zanchini: My Accordion’s Concept (Silta records, 2012)
C’è del coraggio nel lavoro di Simone Zanchini. C’è la voglia di rompere gli schemi e proporre una musica che non conosce il significato della parola “consuetudine”. Terre di nessuno, spazi inesplorati e orizzonti di puro astrattismo emergono dal suo “My Accordion’s Concept”, un disco difficile e dunque buono per chi non ha voglia di fermarsi alle apparenze, a un ascolto superficiale. Si tratta di un album di fisarmonica in solo, dove Zanchini propone un approccio improvvisativo quasi totale, riuscendo a descrivere un percorso zigzagante, che in otto tracce sfiora territori di assoluta libertà espressiva. La sensazione è di trovarsi costantemente di fronte a un terreno impervio, sconnesso, fatto di suoni slegati, sovrapposti e contrari. Il nostro fa un uso discreto della componente elettronica, introducendo rumori e soluzioni che si discostano dal timbro classico dello strumento. La fisarmonica come, probabilmente, non l’avete mai ascoltata.